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Les misérables di Yasmina Reza

Nel suo romanzo di racconti Felici i felici, Yasmina Reza fa a pezzi una grande chimera letteraria: la felicità – “qualsiasi cazzo di cosa voglia dire”. [1]

Parigi, gennaio 2022. Fotografia di Giulia Annecca

Chiediamo scusa preventivamente per aver citato Lo Stato Sociale nell’occhiello ma a) se siete late Millennials per un po’ di tempo potreste aver avuto «il cuore troppo troppo vicino» a quel buciodecül chiamato Tumblr b) la frase del gruppo bolognese rende bene la stanchezza di dare forma e interpretare uno stato d’animo il più delle volte utopico.

Aspirazione massima e dovere morale e sociale, felicità in letteratura è una parola stinta e logora, indagata sempre con una sofferenza che sa di frustrazione. Tolstoj apriva Anna Karenina sulla somiglianza delle famiglie felici e la condizione unica di quelle infelici. Beckett segnava con Giorni felici uno dei momenti più intensi del suo teatro, eleggendo la felicità a titolo dell’opera. E lo stesso fa Yasmina Reza in Felici i felici [N.B. titolo originale: Heureux les heureux] (Adelphi, 2013).

Reza ci ritorna anche nell’epigrafe, dove campeggia una citazione di Jorge Luis Borges: «Felices los amados y los amantes y los que pueden prescindir del amor. / Felices los felices» [2]. Una tautologia, la figura retorica illusoria per eccellenza, che ripropone in termini diversi un enunciato uguale senza mai svilupparlo: fumo negli occhi. La scrittrice francese semina nel paratesto una parola che nel corpo del romanzo non ricorre quasi mai. Così la soglia inganna e la felicità assume l’aspetto di un gioco di specchi che restituisce un’immagine vuota. Mettere nel “contenitore” un lemma e non farlo riverberare nel contenuto è, infatti, sintomatico di una certa sua vacuità.

Perché la felicità in letteratura è antifrastica, interessa solo nella misura in cui di essa si esperisce il contrario. O meglio, forse è preferibile che resti una chimera, una cosa da inseguire, un fantasma contro cui combattere, la quête che muove il racconto. La felicità, di per sé, non muove nessuna narrazione. Possiamo azzardare che la felicità, in letteratura, sia inutile. Se si assume la letteratura come quel gorgo in cui ci si rifugia per capire qualcosa, lo spazio della dissonanza. Non l’ecografia di un’intera esistenza, bensì la rappresentazione di quanto di quell’esistenza ci ha graffiatɜ e lasciate sospesɜ.  

In ogni caso, un libro che solleva questi interrogativi e crea legami di richiamo con il passato è un gran libro, perché ha la forza di inserirsi nel flusso del tempo e rivitalizzarlo con l’energia e i dubbi del presente. E il romanzo disfunzionale e parigino di Yasmina Reza lo è.

I personaggi ricorrenti che sgusciano da un racconto all’altro del romanzo di racconti di Reza appartengono quasi tutti alla borghesia ebraica della capitale francese. Coppie in crisi, capi di gabinetto anaffettivi, psichiatri sadici, rampolli che credono di essere Céline Dion. La rete di rapporti che li lega è una ragnatela afona nella quale sono inevitabilmente intrappolati. Infatti, la vera protagonista è l’incomunicabilità. Reza ha il dono mimetico di riprodurre quello che Godard fa dire ad Anna Karina in Il bandito delle 11: «Perché tu mi parli con le parole ed io ti guardo con i sentimenti».

E se la felicità c’è, in questo libro di misérables, è quella delle intuizioni lapidarie di Reza, che ci consegna delle frasi cesellate nel marmo – per bellezza di stile ed efficacia. La capacità di sorvolare la quotidianità esasperata dei suoi personaggi con uno sguardo ironico e, soprattutto, ampio.

Un po’ come dice Robert Toscano – uno dei personaggi più rappresentati – del suocero Ernest Blot, imbattersi nella scrittura di Yasmina Reza è l’incontro con: «un amico che ha una visione dell’esistenza. Una cosa piuttosto rara». [3]

Giulia Annecca


[1] Lo Stato Sociale, Questa canzone ancora non esiste.
[2] Yasmina Reza, Felici i felici, Milano, Adelphi, 2013, p.9.
[3] Ivi, p. 146.

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