Il romanzo di Hanya Yanagihara è tra i più chiacchierati del 2022, nonostante sia uscito in Italia nel 2016. Il suo successo è dovuto quasi interamente a TikTok, ma resta il fascino di un libro le cui mille pagine non hanno frenato il desiderio di lettura.
Jude, Willem, JB e Malcolm sono amici dai tempi del college, quando condividevano lo stesso appartamento, frequentato assiduamente dalla futura fauna artistica e intellettuale newyorkese. JB è nero, ha origini haitiane, è cresciuto in una micro matriarchal society composta dalla nonna, la mamma, la zia e la compagna di quest’ultima. Degli amici, è l’unico ad aver ricevuto in famiglia un affetto cristallino, che gli ha permesso di abbracciare la propria omosessualità e l’accidentata carriera artistica senza ostacoli. Motivo per cui JB è, tra i quattro, il più sicuro e sfrontato. Malcolm è biracial, coccolato dai genitori benestanti ma anche “costretto” a performare il loro modello di vita, sempre più inaccessibile e datato. Vive con estrema insicurezza qualsiasi scelta, pensando che al varco ci sia la delusione delle aspettative. La famiglia di Willem – contadini svedesi trasferitisi in Wyoming – non l’ha abituato alla tenerezza, eppure Willem è il sostegno psicologico e “il cuore”, per così dire, del gruppo e in particolare di Jude. Di quest’ultimo gli amici non conoscono il passato se non per quello che i segni fisici sul suo corpo lasciano trasparire: un gravissimo incidente che compromette la sua libertà di movimento e poi, con il tempo, i tagli che si autoinfligge. Sono loro i protagonisti di Una vita come tante, il romanzo di Hanya Yanagihara pubblicato da Sellerio nel 2016.
Se la prima parte – Lispenard Street, dal nome della via dove Jude e Willem abitano a New York – sembra far pensare che i quattro avranno se non pari peso quantomeno equo spazio nel romanzo, la seconda chiarisce che Jude è l’epicentro da cui si irradia ogni singola scossa. Si avverte infatti una certa macchinosità nel passaggio da Lispenard Street a Il Post-Uomo, come se Yanagihara avesse in qualche modo cambiato idea rispetto a un ipotetico progetto iniziale. Come se, in ultima analisi, i misteri di Jude potessero costituire materiale narrativo a sufficienza per reggere le pagine successive. E così Malcolm e JB si eclissano, e Willem conserva un ruolo da co-protagonista solo perché è l’unica persona che Jude accoglie davvero nei meandri del suo passato e, in seguito, perché diventa il suo compagno.
Intorno a Jude orbitano – e si parla di orbitare proprio perché il sistema dei personaggi di Una vita come tante si spiega individuando in Jude il sole e in Willem & Co la Terra e gli altri pianeti – tutta una serie di figure che ha incontrato nel corso della sua tristissima (e diremmo pure troppo triste) esistenza. Harold, Andy, Julia, Lucien… Colleghi, medici, genitori adottivi, che in sostanza non hanno altra funzione che quella di tenere Jude in vita. Che sia tramite cure mediche o tramite continui e ripetitivi discorsi di incoraggiamento e di invito a riconoscere la sua unicità e bellezza.
Sì, un sopracciglio è stato alzato. E non perché il personaggio di Jude non meriti compassione, non susciti empatia o sia sopravvalutato. Ma perché questo romanzo ha un evidente problema con il dolore.
Il titolo italiano è difatti antifrastico. Jude è orfano, è cresciuto in un convento di frati a suon di molestie, violenza e abusi. A soli dieci anni viene costretto alla prostituzione, passa di motel in motel alternando malattie veneree a ferite psicologiche. Vive segregato e poi, quando riesce a scappare, viene investito dal suo aguzzino. Un incidente che gli costa danni incurabili al sistema nervoso. E la sua vita adulta, nonostante sia ricca di successo nel lavoro e di affetti, spesso non è meno problematica del passato. Eppure, a un certo punto della lettura, si smette di provare dolore per lui. Si resta suз alleatз, ma per istinto umano e non per trasporto narrativo. Nel senso che si esce dalla pagina e si torna alla propria sedia o divano o metro o tram, insomma alla vita fuori dal testo: continui a parteggiare per Jude se hai un grammo di cuore, ma non perché il romanzo ti tenga dentro alla storia coi suoi meccanismi e le sue strategie.
Forse alla base del malfunzionamento di Una vita come tante c’è la pretesa di campionare un’intera esistenza, di poterlo fare in letteratura come se la vita, in letteratura, potesse diventare una radiografia. E di scegliere come lente d’ingrandimento e di osservazione il dolore. Quando in realtà solo nella vita vera la sofferenza reiterata fa davvero male. Tra le pagine, invece, tutto il resto è noia, a maggior ragione perché il passato di Jude viene rivelato ben circa quattrocento pagine prima dell’epilogo. Ed è un passato così orribile che perfino le violenze del suo presente sembrano spifferi al confronto, o pallide ripetizioni. Perciò il male ne esce depotenziato e l’altra metà del romanzo resta schiacciata dalla prima, incapace di svincolarsi dalla sua premessa sbagliata: quella di poter fare la cronistoria di una lacrima.
Tuttavia, Una vita come tante non è un romanzo che si abbandona. Si arriva fino all’ultima pagina, perché le debolezze di base sono anche il motivo della sua forza: procedere nella lettura significa accompagnare nella crescita e nella vecchiaia i suoi personaggi. E abbracciando l’intero arco di vita delle sue figure di carta Yanagihara scandaglia ogni sfumatura dell’animo umano, ogni piccola smagliatura. In questo senso, scrive un romanzo che ha l’ambizione e in parte il respiro dei romanzi-mondo ottocenteschi, ma con uno spirito tutto moderno. Una modernità data in primis dall’ambiente newyorkese tra gli anni Ottanta e Duemila, ampiamente frequentato a livello cinematografico e letterario (ricco, cosmopolita, artistico) e che non smette mai di esercitare il proprio fascino.
In ogni caso, la questione della sovraesposizione del dolore merita una ripresa. Non solo perché è un tema giocato apertamente nel paratesto (vincente la scelta di mettere in copertina lo scatto meraviglioso di Peter Hujar). Ma anche perché è grazie a questa chiave di lettura che il libro ha spopolato su TikTok e ha raggiunto, a distanza di anni, ampio consenso di pubblico. Infatti, Una vita come tante appare nei trend tiktokkiani in “libri consigliati per piangere”. E da tempo ci si interroga su come Facebook, Instagram e ora anche TikTok abbiano aiutato a sdoganare e normalizzare la rappresentazione e la condivisione della sofferenza. C’è chi dice in maniera eccessiva. Forse questo eccesso va di pari passo con quello del romanzo e spiega, in parte, perché la sua dismisura sia stata premiata appunto sui social.
Insieme allo stile piano e semplice, ciò costituisce uno dei fattori di comprensione del “fenomeno” Una vita come tante. Ed è interessante che oggi lз lettorз (soprattutto giovanз) non avvertano come un limite ma anzi, quasi come un aiuto, la mole imponente di un romanzo simile. Come se fosse affascinante e utile, dopotutto, che un romanzo contenga in toto una vita.
Quel che rende irresistibile il caso di Una vita come tante è proprio questo: essere un romanzo di mille pagine che ce l’ha fatta.
Giulia Annecca