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Orfeo ed Euridice: il confine dell’ultimo respiro

Fotografia di Filippo Ilderico

Claudio Magris (Lei dunque capirà, 2006) intesse il mito alla soglia di una casa di riposo, tracciando il confine dell’amore di una vita.

«Camminavo, correvo, incespicavo in qualche pozzanghera, lo seguivo, inseguivo, non vedevo l’ora di parlargli, guardarlo negli occhi. Ma era proibito e non ne capivo i motivi. Se gli altri avessero saputo di quella visita impossibile, mai concessa a nessuno…» [1].

È Euridice la donna che affretta il passo dietro al poeta: è lei, ma nella finzione di Magris ha lasciato le vesti di ninfa per rinascere nella figura secca di una moglie anziana. Davanti a lei il suo Orfeo, qua scrittore attempato e marito perdutamente innamorato della donna che si porta appresso. L’Ade che ha chiamato a sé l’eroina è ora una quieta casa di riposo, sospesa nella luce opaca e nel silenzio delle sue anime di carta velina. Chi vi entra, non conosce via di ritorno: quale eccezione, dunque, il permesso accordato al poeta di scendere negli anfratti della Casa e riprendere con sé la sposa.

I lettori non si sorprendano perché l’epilogo è noto: l’occasione sfumerà perché l’unica condizione posta – che non si guardino negli occhi – verrà disattesa da Orfeo che, poco prima di raggiungere l’uscio, si volterà verso l’amata. Ecco allora confondersi la figura di Euridice, che si disperde leggera tra le altre anime; Orfeo la guarda impietrito.

Si dovrà ora dare spiegazioni al Presidente della Casa del come e del perché la sua eccezionale concessione è stata declinata, dopo la straordinaria clemenza accordata loro. Euridice prende la penna di Magris e si racconta in un lungo discorso al direttore dell’ospizio, invisibile figura che ricalca l’idea comune del Dio cristiano. «No, non è come hanno detto, che si è girato per troppo amore, incapace di pazienza e di attesa, e dunque per troppo poco amore. E nemmeno perché, se fossi tornata con lui, non avrebbe più potuto cantare quelle canzoni melodiose e struggenti che dicevano il dolore della mia perdita […]. No, sono stata io. […] L’ho chiamato con voce forte e sicura, la voce di quando ero giovane, […] e lui […] si è voltato» [2].

Esistono limiti che agli uomini non è dato varcare, punti fermi che neanche l’amore umano più tenace può spostare: la morte è uno di questi. Il mito romantico ha avvinto generazioni con il grande ideale di una passione trionfante sull’infinito, vincitrice dispotica delle resistenze umane, e, ancora oggi, quest’immaginario è rifugio di molte fantasie. La realtà è altra cosa e l’Euridice contemporanea di Magris lo sa bene: Orfeo non può riportarla indietro perché non gli è dato opporre il suo volere al naturale corso di un’anima. L’amore consolidatosi nel tempo di una vita condivisa da consorti perdura fino all’ultimo respiro, e non oltre. Quello che da molti è interpretato come un per sempre, è, in realtà, un limite che termina assieme alle possibilità preposte all’umano. La promessa matrimoniale cristiana – finché morte non ci separi – traccia il confine del campo in cui l’amore umano è chiamato a portare frutto.

Oltre questo margine, l’amore muta in possesso ed egoismo; ed ecco come Orfeo, pur di placare il suo dolore, è pronto a varcare le porte del mondo ultraterreno: «lei magari starà anche bene, […] non le manca niente, lo so, però io, io come faccio senza di lei» [3]. Ci si chiede dunque per chi abbia chiamato indietro Euridice, se non per se stesso e per la «linfa della sua fioritura» [4], l’ispirazione della sua poesia, che ora forse gli avrebbe schiuso persino i segreti di «come sono veramente le cose, il mondo» [5], nella convinzione di chi «è persuaso […] che una volta entrati nella Casa si veda finalmente in faccia la verità» [6].

L’Euridice di Magris ama in maniera ancora più lungimirante del suo Orfeo: non lega indissolubilmente l’amato a sé, ma lo accompagna in vita finché è in sua capacità farlo, congedandosi poi come libera amante con un libero amato. Alla soglia dei due mondi, la scelta inaspettata di Euridice pare voler suggerire a lui le parole più opportune da rivolgerle: «ti ho accompagnata fino qui allo stremo delle mie possibilità; ti ho affiancata in vita da uomo e da uomo ti consegno a ciò che non mi è dato conoscere. Il mio amore sia dunque libero per te, che non mi appartieni.» [7]

Alice Dusso


[1] C. Magris, Lei dunque capirà, 2006, Garzanti
[2] Ibidem
[3] Ibidem
[4] Ibidem
[5] Ibidem
[6] Ibidem
[7] Ibidem

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