Fight Club, basato sull’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, è un thriller drama che sfrutta il tema della violenza per svelare i disturbi psichici dell’uomo moderno e la doppia anima nascosta delle persone. Il film cult del 1999, diretto da David Fincher, è interpretato da Edward Norton, Brad Pitt e Helena Bonham Carter.
«Danno. Caos. Sapone.», così la locandina si presenta allo spettatore e promette una storia violenta, inquietante e polemica. Ma Fight Club non è solo pugilato in uno scantinato, come dimostra il suo decimo posto nella classifica, stilata nel 2008, dei 500 migliori film della storia secondo Empire [1]. Che cosa rende questa pellicola così iconica?
Il protagonista senza nome (Edward Norton) è un anonimo consulente assicurativo di una casa automobilistica. In lui si riflette lo stereotipo dell’impiegato schiacciato dal logorio della vita moderna, dal consumismo fine a sé stesso e da disturbi come ansia e insonnia. L’unico modo per trovare sollievo è partecipare alle riunioni dei gruppi di supporto per malati terminali. Proprio in questa circostanza conosce Marla (Helena Bonham Carter), una strana ragazza con la quale inizia un rapporto sentimentale instabile.
Durante un viaggio di lavoro incontra un misterioso ed enigmatico produttore di saponette, Tyler Durden (Brad Pitt). Lo stesso giorno, tornato a casa, il narratore scopre che la sua abitazione è andata interamente distrutta in un’esplosione, a causa del gas rimasto inspiegabilmente aperto. Senza avere molte altre alternative, il disperato protagonista chiama Tyler per avere del supporto morale. I due vanno a bere in un locale, poi a serata finita escono dal bar e, per gioco, iniziano una lite, attirando l’attenzione degli altri clienti. Ha così inizio il Fight Club, un’organizzazione clandestina di combattimenti per uomini frustrati e insoddisfatti della loro esistenza, che in breve tempo si estende a macchia d’olio in tutti i bassifondi d’America.
Da quel momento, tra i personaggi nasce un bizzarro e ossessivo rapporto: trainati dal carismatico Tyler, i due iniziano a radunare nuovi adepti, uomini alienati come loro che si professano pronti a tutto pur di rovesciare l’ordine sociale. È proprio questo l’obiettivo finale del “Progetto Mayhem”, con cui Tyler vuole colpire le sedi delle banche tramite delle autobombe piene di nitroglicerina fatta in casa, generando così il caos. L’intera situazione degenererà in un atto di terrorismo contro la società, considerata la fonte originaria di tutti i mali, portando avanti una spietata e inappellabile critica verso il mondo moderno.
Il film è disseminato di indizi che portano a una rivelazione illuminante: Tyler Durden in realtà non esiste affatto perché è solo un’invenzione del protagonista, un alter ego prodotto dai disturbi che lo ossessionavano. Acquisita questa consapevolezza, il narratore cerca in tutti i modi di opporsi al lato deviato della sua mente. Il disturbo di personalità di cui soffre il narratore è mostrato tramite dei flashback ma, soprattutto, dalla decisione finale: il “Tyler buono”, che sceglie di spararsi in bocca per uccidere il suo doppio malvagio. Il protagonista sopravvive al colpo ma assiste, inerme e mano nella mano con Marla, al crollo degli istituti di credito da lui causato, in una delle scene più memorabili di tutto il film, accompagnata in sottofondo da Where Is My Mind? dei Pixies.
L’iconica pellicola racconta un viaggio psicanalitico attraverso la violenza, il disagio sociale e l’ancestrale miscuglio di bene e male. La frustrazione e la nevrosi prendono forma in un doppelgänger distruttivo e senza scrupoli, un gemello cattivo nascosto sotto la superficie di una psiche già fragile.
Martina Costanzo
[1] https://www.empireonline.com/movies/features/500-greatest-movies/