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Le notti acustiche di Snuff, Black e Nutshell

Fotografia di Elena Sofia Ricci

Tre buie serate acustiche, tre cantanti si spogliano di ogni maschera, scoprendo l’oscurità che ospitano dentro di sé. Tre brani che infondono rabbia, angoscia, paura: la perdita di una speranza di salvare l’amore della propria vita, sé stessi, o entrambi.

La notte è un non-luogo oscuro in cui, paradossalmente, l’anima si sente sicura nel mettersi a nudo. È il momento perfetto per essere travolti dall’incontenibile oscurità dentro di noi, che prima o poi trova la via di sgorgare al di fuori. È ciò che ha spinto Corey Taylor, Eddie Vedder e Layne Staley a sprigionare un forte pathos, mimetizzandosi nel buio con la leggerezza di una versione acustica, più intima, ma non meno penetrante, di tre brani di cui sono autori – e protagonisti.

L’oscurità in tutte e tre affiora sia nella musica, che nei testi, in diverse forme. «My heart is just too dark to care» sono i lampanti versi nel cuore una di queste tre canzoni, fra le tre la più densa e tagliente: Snuff, scritta da Corey Taylor, cantante del gruppo heavy metal Slipknot. «This is a slow one», ha detto Corey Taylor in un’intervista, riguardo alla singolarità di questo pezzo commovente rispetto al resto dell’album All Hope is Gone (2008) di cui fa parte. Snuff è una lettera d’addio, difficile quanto necessaria, dedicata alla donna che ha amato e che l’ha deluso profondamente. Nella versione in studio dell’album, a precedere l’ingresso dell’energia delle percussioni ci sono infatti questi versi: «I couldn’t face a life without your lights / But all of that was ripped apart when you refused to fight».

Snuff” è una parola che attribuisce un significato creepy alla canzone. In gergo cinematografico, gli snuff movie sono video e film che riprendono torture e morti avvenute realmente, senza effetti speciali. Il dolore di Taylor, vittima di un amore tormentato, si riflette in questo significato, specialmente nei versi «It took the death of hope to let you go» in cui una parte di lui, la speranza di essere amato da lei per l’appunto, muore definitivamente.

La versione acustica, solo voce e chitarra, è ancora più intensa, come si può sentire da questo live a Londra. Taylor introduce il brano presentandolo come una «very heavy song», prima di immergersi in un abisso buio con la musica: sul palco, sotto la luce di un riflettore, anche se chiede il sostegno del pubblico, è necessario distaccarsi da tutti i presenti in qualche modo, chiudere gli occhi, per potersi lasciare andare. Solo guardandosi dentro, trovandosi faccia a faccia con la ferita, si può gridare «And I won’t listen to your shame / You ran away / You’re all the same», per concludere con gli ultimi versi, i più potenti: «My love was punished long ago / If you still care, don’t ever let me know». L’ultimo verso della canzone si lega al titolo dell’album di cui fa parte (All Hope is Gone): parole strazianti come «If you still care, don’t ever let me know» sigillano la canzone con un ultimo violento colpo, confermano lo svanire dell’ultimo briciolo di speranza e, infine, un definitivo addio.

«All the love gone bad turned my world to black / Tattooed all I see, all that I am, all I’ll be» sono i versi nucleari della canzone di Vedder, leader dei Pearl Jam. Già solo dal titolo Black è percepibile l’amarezza della canzone, che i Pearl Jam si sono rifiutati di pubblicare come singolo del primo album Ten (1991), o di accompagnare con un video musicale. Un pezzo nostalgico, come dice il verso «Spread out before me as her body once did», l’ultimo colpo di rassegnazione. Nella vita del cantante ora è tutto come ricoperto da un velo di cenere nera, dopo la fine della sua relazione, o come coperto da una patina di tatuaggi per coprire ciò che è stato, ciò che è perduto: «Oh, the pictures have all been washed in black / Tattooed everything».

Nel MTV Unplugged del 1992 a New York, sono forti i contrasti tra i momenti più morbidi e quelli più struggenti nel canto di Vedder, che culminano in grida furiose e graffianti nell’ultimo verso, il più heartbreaking: «I know you’ll be a star in somebody else’s sky, but why / Why, why can’t it be, oh, can’t it be mine?». Nero come un cielo notturno senza più la sua stella polare. Anche se, a differenza di Snuff, in Black la morte della speranza non è ancora pervenuta. Alla fine della canzone, Vedder sembra non essere davvero presente sul palco, e la sua voce dà i brividi quando esplode in un ultimo «We belong together».

Nutshell è, tra le tre, la più cupa: una rinuncia definitiva a sé stessi. Contenuta nell’album degli Alice in Chains intitolato Jar Flies (1994), è quella dal testo più sintetico, ma emotivamente pesante. Nella penombra ammorbidita solo dalle luci fievoli delle candele, turba molto anche l’instabilità fisica e psicofisica di Staley evidenti sotto i deboli riflettori rosa del MTV Unplugged del 1996, condizioni dovute alla tossicodipendenza ormai avanzata e presumibilmente alla morte della sua fidanzata (tossicodipendente a sua volta) avvenuta quello stesso anno.

Eppure la performance è efficace, piena di pathos, seppur di un tipo oscuro. Non è neanche giusto nei confronti di Staley rappresentarlo solo attraverso la sua dipendenza, ma questa è senza dubbio uno dei principali motivi per cui si è trovato, verso la fine degli anni 90, a combattere in solitudine, come canta in Nutshell. L’unica consolazione a una situazione come quella che ha affrontato negli ultimi anni della sua vita sarebbe stata la morte: «And yet I find, and yet I find repeating in my head / If I can’t be my own, I’d feel better dead».

Teresa David

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