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Il delitto degli Übermensch: nei meandri di Compulsion

Fotografia di Luca Torriani

Romanzo-verità del 1956 di Meyer Levin, Compulsion racconta l’omicidio che scandalizzò gli Stati Uniti negli anni ’20: Nathan Leopold e Richard Loeb, due studenti modello della Chicago bene, uccidono un bambino per compiere l’atto che sancisca il loro essere superiori, al di là del bene e del male.

Compulsion di Meyer Levin appartiene alla corposa tradizione statunitense del romanzo-verità o narrativa nonfiction, che dir si voglia. Quel filone della letteratura che spesso convoglia nel noir, come nel caso del libro del 1956 dello scrittore di Chicago, che in esso ripercorre le vicende che sconvolsero nel 1924 la sua città.

Judd Steiner (Nathan Leopold) e Artie Strauss (Richard Loeb), due giovani e promettenti rampolli della facoltà di Giurisprudenza di Chicago, all’età di diciotto e diciannove anni stanno già per laurearsi e premeditano l’atto che li consegni definitivamente a quella sfera di superiorità etica e intellettiva che la vita sembra averli riservato: il regno dei superuomini. Infarciti di letture letterali dell’opera nietzschiana e di romanzi polizieschi, ad accumunare Judd e Artie, diversi e speculari, è il disprezzo che nutrono per quella società profondamente conservatrice che pure li ha cresciuti tra privilegi e possibilità. Artie affascinante, infantile, schizofrenico. Judd introverso, distaccato, ossessivo. Di giorno nelle confraternite e sui prati dell’università, di notte in macchina o in camera a mettere a punto il piano che li leghi indissolubilmente e confermi la loro estraneità alle regole del vivere comune: compiere un omicidio, sperimentare l’esercizio della morte, uscirne indenni. Paulie Kessler (Bobby Franks), ragazzino della loro stessa estrazione sociale e figlio di amici di famiglia, sarà la vittima prescelta. Sid Silver, invece, alter ego di Levin e voce narrante, è loro coetaneo, li conosce e si troverà invischiato emotivamente e lavorativamente nel caso dopo aver scoperto il corpo senza vita di Kessler per conto del giornale per cui scrive.

Levin si attiene al principio di realtà riportando testimonianze, documenti, interviste, arringhe processuali e studi psichiatrici realmente accaduti. Tuttavia, concede molto alla fiction, in primis alterando i nomi dei personaggi. L’operazione più audace nel territorio della finzione narrativa è lo scandaglio della mente dei due protagonisti. Levin ne sonda passioni, ansie, sogni, anticipando il lavoro che in seguito, durante il processo che li condannerà all’ergastolo salvandoli dalla forca, faranno i cosiddetti “alienisti”.

Compulsion è anche un grande affresco d’epoca. Si ha l’impressione che il delitto di Steiner e Strauss sia un prodotto diretto della Chicago proibizionista degli anni ’20. Una società apparentemente frivola, che nasconde dietro al charleston e alle serate di gala il disagio dell’appartenenza ad una classe agiata e compassata, scavalcata nelle sue credenze e nella sua morale da quel terremoto epistemologico costituito dalle scoperte scientifiche, filosofiche e psicologiche di quegli anni. Un ambiente represso e repressivo, eretto sui tabù, che riflette nell’estrinsecazione sociale e nella sua interiorizzazione le pareti di una cella.

Il ricorso agli psichiatri, la ricostruzione quasi deterministica della mente umana, la caccia alle streghe, lo spauracchio del sesso e della sessualità, i metodi coercitivi della polizia sono il compromesso tra passato e futuro che rende l’omicidio dei due studenti prodigio uno squarcio sulla modernità e sulle sfide conoscitive che essa comporta, ammantando il romanzo di Meyer Levin di eterno fascino e mistero.

Giulia Annecca

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