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L’Avversario di Carrère: una (s)fortunata serie di bugie

Fingere per decenni di essersi laureato in medicina e di lavorare all’OMS senza che la propria impostura venga mai scoperta. È ciò che succede a Jean-Claude Romand, protagonista de L’Avversario di Emmanuel Carrère. Un miracolo? Un sogno? Un incubo.

Fotografia di Anirudh

In questo libro, che narra una storia vera, un caso di omicidio avvenuto in Francia nel 1993, Carrère conduce il lettore tra le finzioni e le bugie del protagonista attorno a cui ha scelto di costruire la propria opera, l’assassino Jean-Claude Romand. Il lettore viene subito introdotto al momento posteriore all’omicidio, quando le prime notizie iniziano a circolare e la comunità di Prévessin, dove Romand viveva con la moglie e due figli, deve prima affrontare la scoperta che casa Romand è andata a fuoco e tutta la famiglia, tranne Romand stesso, è morta, poi che quest’ultimo è l’assassino.

La domanda che inizia subito ad affacciarsi nella mente di tutti, continuamente ribadita dalla narrazione, è: com’è possibile che nessuno, all’interno della comunità, si sia accorto di nulla? Romand stesso si pone questo interrogativo.

Tutto ha inizio ai tempi dell’università, quando Jean-Claude, in preda ad una crisi depressiva inconfessata, non si presenta agli esami finali del secondo anno di medicina e poi di nuovo agli esami di ammissione al terzo anno. Da questo momento in poi il ragazzo comincia a mentire sui propri studi, fingendo di essere stato ammesso al terzo anno e, dopo l’università, di aver trovato lavoro all’OMS.

Il giovane Romand non si sarebbe aspettato che la propria bugia durasse per decenni; aveva anzi atteso con ansia il momento in cui avrebbe dovuto affrontare le conseguenze della propria azione. Ma nessuno ha mai scoperto nulla; nello stupore del protagonista tutti hanno continuato a credere alle bugie che, una dopo l’altra, egli pronunciava per evitare di farsi scoprire. Un miracolo, una serie fortunata di avvenimenti che porta Romand a cavarsela sempre? No, un incubo, un incubo che alla fine lo porterà, pur di non essere scoperto, a uccidere tutta la famiglia. Questo, almeno, è ciò che emerge dall’auto-narrazione che il falso medico conduce all’interno dell’opera. Il narratore tuttavia mette in guardia il lettore dalle auto-rappresentazioni che Romand offre di sé all’interno dell’opera, mostrando come la mancata scoperta della verità, che apparirebbe fortuita se il suo esito non fosse tragico, non sia solo il frutto di un insieme di circostanze esterne, di elementi del caso che avrebbero condotto Romand a continuare sulla via della menzogna fino all’esito finale, ma sia piuttosto anche il frutto di una scelta.

Se è infatti strano che nessuno per decenni si sia reso conto delle stranezze di Romand in ambito lavorativo, come il fatto che nessuno potesse chiamarlo in ufficio, è anche vero che nel corso della narrazione l’uomo viene mostrato man mano nella sua qualità di narratore inattendibile, mettendo in discussione i suoi stessi tentativi di uscire dalla propria menzogna e di confessare la verità. Tramite la voce del narratore, che corrisponde all’autore stesso dell’opera, il lettore comincia a percepire come Romand cerchi di trasmettere tramite le proprie auto-narrazioni delle immagini di sé, la cui veridicità è tuttavia dubbia.

In particolare, se il racconto della concatenazione di fortunati casi che hanno portato Romand a non essere scoperto, conducendolo infine a uccidere tutta la famiglia, si inserisce all’intero di un tentativo di rappresentarsi al lettore come una sorta di eroe tragico, vittima sventurata di forze demoniache che non controlla, bisogna notare come a un certo punto della narrazione Romand stesso cambi auto-rappresentazione: dopo l’incontro con un cappellano in carcere l’uomo dichiara infatti di essersi condannato a vivere e comincia a parlare tramite metafore cristiane.

Ecco che il suo personaggio passa da eroe tragico a “grande criminale sulla via della redenzione mistica”, rifugiandosi sotto l’ala consolatoria del perdono di Cristo e di una verità cristiana con la “v” maiuscola, di una fede che Romand reputa sincera a livello di immagine presentata e probabilmente, per come lo racconta Carrère, a livello conscio, ma che di fatto non è che l’ultimo inganno del “piccolo imbroglione”.

Quest’ultima auto-rappresentazione annulla la prima. Nessuna figura tragica è infatti possibile all’interno di una visione provvidenzialistica cristiana in cui Romand, da assassino, sostiene di ritenersi felice per essere finalmente tornato alla verità (o meglio Verità) e in cui il suo stesso atto viene considerato una tappa necessaria per l’approdo a Dio. Da questa visione l’autore non può che discostarsi, allontanando da essa anche il lettore: «Non volevo arrivare al punto di bermi tranquillamente una storia inventata di sana pianta come quella dell’innamorata suicida proprio il giorno prima dell’esame, né convincermi come Bernard che in fondo quel destino tragico era stato provvidenziale: “E pensare che ci sono volute tante bugie, tante coincidenze e quel dramma terribile per permettergli oggi di fare tutto il bene che fa attorno a sé…È una cosa che ho sempre creduto, e che ora vedo realizzarsi nella vita di Jean-Claude: tutto finisce bene e trova un senso per chi ama il Signore» [1].


[1] E. Carrère, L’Avversario, Milano, Adelphi, 2013.

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