Giuditta è un’eroina biblica che riesce a salvare il suo popolo dal tiranno assiro Oloferne, utilizzando doti di astuzia e di coraggio. La sua vicenda è raffigurata in una serie di quadri ma, particolarmente iconici, sono quelli d’età barocca realizzati da Caravaggio e da Artemisia Gentileschi.
All’interno del libro biblico di Giuditta si narra la storia dell’eroina ebrea, vedova bella e coraggiosa che escogita un piano per salvare il suo popolo dall’avversario, il nemico assiro che assedia Israele da 34 giorni. Restano solo 5 giorni prima della resa degli Ebrei. Giuditta si offre di andare volontaria all’accampamento degli Assiri e riesce in ultimo ad averla vinta decapitando il generale Oloferne durante il sonno.
Si tratta di un brano che ha profondamente colpito gli artisti, i quali lo hanno raffigurato fin dall’ 870 nella Bibbia di Carlo il Calvo e già nei codici miniati del Duecento e del Trecento. Giuditta diventa nei secoli simbolo della vittoria del debole contro il forte, dell’astuzia sulla violenza, della donna sull’uomo potente e prevaricatore.
Nei vari e diversi momenti della vicenda l’episodio viene ripreso nel corso dei secoli in più occasioni, da più mani e in parecchie forme. Nel Rinascimento prevale la volontà di restituire candore ad un gesto così violento. In questo senso, particolarmente efficace è l’immagine del gruppo scultoreo di Donatello o quella della Giuditta di Botticelli che cammina su strada con la testa di Oloferne in atteggiamento quasi danzante e con sguardo sognante per il successo ottenuto. Anche il pittore tedesco Lucas Cranach il Vecchio sembra ossessionato dalla figura di questa donna e la dipinge una gran quantità di volte (almeno dieci) con differenze minime negli accessori, nei dettagli e nell’abbigliamento.
Ma è nell’età barocca che l’episodio diventa un monito per i fedeli, complice il gusto per il macabro del Seicento e la funzione della Chiesa della Controriforma, secondo cui le immagini sacre dovevano scuotere gli osservatori e amplificarne le paure. In quel periodo, le torture e le punizioni corporali, proprio con funzione di esempio, erano date in pasto al pubblico, attirando masse enormi di persone soprattutto dei ceti più bassi. È in quel contesto che opera e si sviluppa il genio artistico di Caravaggio, negli anni in cui erano apparsi i Due Dialoghi di Giovanni Andrea Gilio da Fabriano con il saggio Degli errori dei pittori, in cui si raccomandava che Cristo e i martiri non fossero dipinti in forme idealizzate, ma afflitti e sofferenti.
Sembra che nel periodo in cui Caravaggio visse nella capitale si siano avute 621 esecuzioni capitali e probabilmente lo stesso Caravaggio dovette assistere ad alcune di esse. A tal proposito, lo studioso Edward Safarik ha associato l’esecuzione della giovanissima e sfortunata nobile romana Beatrice Cenci, decapitata nel 1599 presso Ponte Sant’Angelo, all’opera dipinta da Michelangelo Merisi dal titolo Giuditta che decapita Oloferne, oggi conservata a Roma a Palazzo Barberini.
La sua Giuditta, a differenza di quelle rinascimentali e in conformità con lo stile dell’autore che si ispira al vero e rifugge da tentazioni idealistiche, è una donna determinata, quasi costretta a compiere il delitto che porta a termine, eppure fiera di farsi interprete del nuovo destino del suo popolo. Il Caravaggio sceglie, non a caso, il momento culmine della storia biblica, quello del delitto. Il quadro presenta la caratteristica luce caravaggesca che sembra irrompere nell’opera consentendo all’osservatore di vedere i dettagli dell’omicidio. Ancora, l’effetto chiaroscuro aumenta la drammaticità del momento: il sangue schizza sul materasso mentre Oloferne spalanca la bocca e gli occhi in un ultimo sussulto di terrore. Vi è in ultimo un tocco fortemente ad effetto: un drappo rosso sullo sfondo sollevato come un sipario.
Anche Artemisia Gentileschi sceglie lo stesso episodio biblico e lo stesso momento, quello del compimento del delitto, per la tela Giuditta decapita Oloferne (1612), oggi conservata al Museo di Capodimonte di Napoli. L’artista è protagonista di una drammatica vicenda di stupro nel 1611 ad opera del pittore Agostino Tassi, aiutante del padre di Artemisia, Orazio. Questi lo trascinò in un processo per violenza carnale contro la figlia (un fatto estremamente insolito per l’epoca, forse il primo processo per stupro della storia), al termine del quale Tassi, giudicato colpevole, fu condannato all’esilio, senza però mai scontare la pena.
L’ambientazione del quadro non è dettagliata. L’attenzione è rivolta alle tre figure, la cui fisicità è fortemente evidenziata dalle tinte molto vive e in contrasto utilizzate dalla pittrice: il blu della blusa di Giuditta, il rosso di quella della serva e del sangue di Oloferne, e infine il bianco della vittima. In primo piano, la giovane e bella Giuditta, aiutata dalla fantesca Abra, si avventa sul generale assiro Oloferne. Nell’opera, di chiara influenza caravaggesca, il generale viene sorpreso nel sonno e le due donne riescono, con l’impeto delle loro forze unite, a trattenere l’uomo, a superare il suo tentativo di liberarsi e a staccargli la testa con la scimitarra. Fortemente espressivo il sangue del tiranno che sgorga a fiotti macchiando le candide lenzuola e che colpisce e impressiona lo spettatore. La tela, insieme all’altra versione del dipinto, è divenuta una sorta di icona della pittura barocca, in virtù della forza drammatica e del rinvio all’esperienza autobiografica dell’autrice.
La vicenda è raccontata proprio di recente nel libro Le disobbedienti di Elisabetta Rasy, nel quale Artemisia ed altre artiste (Frida Kahlo, Berthe Morisot, Élisabeth Vigée Le Brun, Suzanne Valadon, Charlotte Salomon), differenti tra loro per nascita e carattere, sono accomunate perché, con le parole dell’autrice intervistata da Repubblica, «ognuna di loro è stata una donna libera in tempi e in situazioni in cui la libertà femminile era guardata con sospetto oppure, molto più spesso, non era assolutamente tollerata. Ognuna ha preso in mano il destino che gli altri le avevano assegnato e, lottando, lo ha trasformato nel proprio personale destino». Come la Giuditta biblica.
Marta Casuccio