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Dostoevskij e le notti vane

Fotografia di Manuel Monfredini
Fotografia di Manuel Monfredini

Un giovane Dostoevskij (Le notti bianche, 1848) presenta le vie notturne in cui i vagheggiamenti di uno scrittore solitario trovano la corrispondenza di una fanciulla dal cuore affranto.  

Ciò che è concesso raccontarsi di notte non trova posto nelle tabelle orarie che stringono le giornate tra scadenze e appuntamenti, ma trattiene il respiro nelle ore di luce per poi guadagnare terreno tra le vie illuminate dai lampioni. Si tessono allora trame che al mattino non si ha tempo o coraggio di ordire e che il buio invece promette di non svelare. Chi passeggia in queste ore difficilmente non scivola nel mito del sognatore dostoevskiano che su racconti immateriali ha costruito un’intera esistenza.

«Guardate questi magici fantasmi che si dispongono in modo tanto ammaliante e capriccioso in un ampio quadro così accattivante, animato, dove in primo piano si trova sempre lui, il nostro sognatore, con la sua preziosa persona»[1]. Non c’è altro regista per la pellicola che si svolge davanti ai suoi occhi: ogni comparsa e battuta risponde al dettato del suo gusto, a ciò che più solletica la sua fantasia. Quando la città tace, l’io non trova ragioni di stare zitto e si abbandona ad un solipsistico delirio tanto fertile di piaceri per la mente, quanto sterile di risvolti concreti. La notte non ascolta e non giudica, scioglie vincoli e promette di accogliere ciò che di giorno non ci si consente fare, senza mai, però, trasformarlo in atto.

È il meraviglioso ideale che consola chi nella realtà non vuole più trattenersi, ma anela a quella “fuga estetica” con cui l’educazione schilleriana ha ammaliato la borghesia russa degli anni Trenta e Quaranta. In un grazioso ideale attecchisce l’affetto che avvince il protagonista ad una ragazzina, Nasten’ka, e che nel tempo di quattro notti fiorisce ed è reciso dalla cesoia crudele del reale. I sentimenti che il vespro ha covato, l’alba già li sbiadisce e all’apparire dell’amore vero e atteso Nasten’ka si svincola presto dalle braccia del sognatore. «Nella sua anima regnano il vuoto e la tristezza; tutto il reame dei sogni attorno a lui è crollato senza lasciare traccia, senza rumori, senza chiasso, è svanito come una visione» [2].

Il sipario si chiude e la realtà torna immancabilmente a chiedere il conto di emozioni vere spese per scenari fittizi, nel cortocircuito di una fantasia avvolta su se stessa e che per se stessa vive. «Allora senti che […] quella inesauribile fantasia alla fine si stanca, si esaurisce in quella tensione permanente perché maturata […] Invano il sognatore rovista nei suoi vecchi sogni, come fra la cenere, cercandovi una piccola scintilla per soffiarci sopra e […] far risorgere ciò che prima era così caro, che commuoveva la sua anima» [3].

Sui sanpietrini gialli dal riflesso dei lampioni le storie troveranno sempre i loro risvolti più audaci e ci si perderà volentieri a disegnare vicende sensazionali scorrendo lo sguardo sui profili dei tetti. La coscienza che poi solo alcune tra queste narrazioni resisteranno allo scontro con il reale sarà il discrimine che poterà le fantasie vane affinché diano progetti che dal reale non fuggano.

Alice Dusso


[1] F. Dostoevskij, Le notti bianche, traduzione e cura di Giovanna Spendel, Mondadori, Milano 1993 (ed. orig. 1848), p.23.
[2] Ivi, p. 22.
[3] Ivi, p. 27.

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