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Tomaselli e Guttuso: il maestro e l’allievo nella denuncia delle solfatare siciliane di fine Ottocento

Seppur con stili differenti, i due siciliani Onofrio Tomaselli e Renato Guttuso realizzano due opere dallo stesso tema e con lo stesso obiettivo di profonda denuncia sociale: le solfatare e lo sfruttamento, soprattutto minorile, tanto diffuso nella realtà siciliana novecentesca. Entrambi sono impegnati nella politica e nel sociale: I Carusi e La Zolfara ne sono emblema.

Disegno con ragazzo dormiente/morto circondato dalla nube di una solfatara
Disegno di Elena Sofia Ricci

Dall’inizio del diciannovesimo secolo si sviluppa e cresce in Sicilia il fenomeno delle solfatare, che dura fino agli anni Settanta del Novecento. A causa della sempre maggior richiesta di zolfo per la produzione di polvere da sparo, vengono aperte in quel periodo molte miniere presso le quali vanno a svolgere il pericoloso e faticoso lavoro dell’estrazione dello zolfo numerosi contadini poveri e i loro figli. Una forma di sfruttamento di manodopera simile allo schiavismo che coinvolgeva bambini e ragazzini a partire dai sei anni di età. Questi, arruolati direttamente dal picconiere che pagava con anticipo i genitori in cambio del lavoro dei figli (formula detta del “soccorso morto”), trasportavano quintali di zolfo – in quantità proporzionata alla giovane età dei fanciulli – lungo i cunicoli bui e stretti delle miniere per un ammontare di ore che andava dalle dieci alle sedici al giorno.

Naturalmente a causa della numerosa quantità di rischi nello svolgimento di questo tipo di compiti, si verificarono molti incidenti sul lavoro che verso la fine del secolo si susseguirono con frequenza. Tra tutti si ricorda il terribile episodio avvenuto il 12 novembre 1881 a Caltanissetta, all’interno della zolfara di Gessolungo. In quella circostanza persero la vita 65 minatori, tra cui 19 “carusi” (bambini tra gli 8 e i 16 anni), ben nove dei quali rimasero senza nome.

A quell’evento si ispirò probabilmente Onofrio Tomaselli (Bagheria 1866 – Palermo 1956) nel 1905 quando realizza l’opera I carusi – in dialetto “bambini”, “ragazzini” – oggi custodita alla Galleria di arte moderna di Palermo, sita nel complesso monumentale Sant’Anna. L’opera fu preceduta da una serie di bozzetti sulla tematica del lavoro in miniera, fra cui Testa di carusoSacco di zolfo ed altri. I carusi nacque in seguito ad un temporaneo soggiorno del pittore presso le solfatare del barone La Lumia, proprietario di miniere di zolfo. La scelta del soggetto non fu casuale: il pittore, infatti, è animato dalla volontà di mettere in luce le condizioni di fatica e abbrutimento del lavoro in miniera, ancor più di quello minorile, in armonia con le sue caratteristiche di uomo di arte ma anche di intellettuale impegnato nelle battaglie civili.  

Tomaselli, infatti, è un artista che, come altri pittori dell’epoca, risente di esperienze pittoriche fatte fuori dell’isola ed in particolare del paesaggismo e delle tendenze veriste della scuola napoletana, soprattutto della bottega del Morelli. Egli si forma e lavora tra la Sicilia, in particolare Bagheria e Palermo, e Napoli, avendo egli sposato una nobile napoletana e frequentato l’Accademia delle belle arti del capoluogo partenopeo. Il Tomaselli però non è un semplice artista, ma è anche un uomo politico, membro del comitato centrale del Partito Comunista Italiano e senatore del Regno, sensibile ai problemi sociali della sua epoca e pronto a rappresentarli con le sue opere. Il dipinto citato, che lo fa ritenere caposcuola artistico del verismo sociale meridionale, si distingue per il forte impatto sullo spettatore. L’opera è permeata da una forte volontà di denuncia sociale: colpisce immediatamente la sua monumentale grandezza e il fatto che rappresenta la famosa realtà delle solfare siciliane, descritta in tutta la sua crudezza e miseria nella letteratura dei grandi intellettuali isolani, da Verga fino a Pirandello e Sciascia. 

La tela è stata dipinta con l’utilizzo di una prospettiva dal basso e presenta sulla sinistra un bambino disteso sul terreno, visibilmente provato dalla fatica, e sulla destra una fila di ragazzi che, uno dietro l’altro, escono dal cunicolo della miniera reggendo nelle loro schiene ricurve il peso di grandi sacchi. Malgrado il forte realismo, il quadro presenta pure un alone di allucinazione che si può attribuire alle caratteristiche dello sfondo: una riarsa radura siciliana e un cielo azzurro macchiato da quattro fumanti ciminiere disposte su un’altura in lontananza. La luce che pervade il quadro è chiara, l’atmosfera sembra calda probabilmente in considerazione delle alte temperature dell’isola se pur temperata dall’umidità e dall’oscurità delle miniere. I bambini escono dalle grotte delle zolfatare e sono raffigurati in fila in atto di camminare con passo lento e strascicato dalla stanchezza, gli occhi bassi, rivolti verso la nuda terra.  

I carusi verrà esposto nel 1906 alla Esposizione internazionale di Milano e successivamente solo dopo alcuni anni rispetto alla sua realizzazione, ovvero nell’occasione di una mostra tenutasi al teatro Massimo nel 1913. Il quadro non ebbe echi significativi nella pittura siciliana negli anni a seguire fatta eccezione per quella di Renato Guttuso (Bagheria 1911 – Roma, 1987), compaesano e allievo proprio del Tomaselli. Infatti, Guttuso stesso ammise di essersi ispirato al quadro del suo maestro per la realizzazione de La Zolfara

Un raffronto tra le due opere mostra due stili profondamente differenti: dal crudo, seppure in parte “macchiaiolo” verismo di Tomaselli si passa alla forte e coloratissima raffigurazione di Guttuso. Anche questa in realtà abbastanza diretta: vi sono uomini nudi, quasi stilizzati, senza precise fattezze e dal colore verdastro che si affannano all’interno della miniera e immediatamente fuori da essa. La pittura di Guttuso usa, come egli è solito fare, molti gialli, molti rossi, appare “materica”.  In questo caso non ci sono “carusi”, ma uomini adulti, fatta eccezione per un solo “caruso” in primissimo piano. Anch’essi, tuttavia, sono stanchi e sfruttati; le rocce sono appena accennate e si fondono con gli altri soggetti e oggetti circostanti in una confusione magmatica che tuttavia bene pone l’accento sul messaggio che intende fornire allo spettatore. Il violento espressionismo di Guttuso del quale questo quadro può essere considerato un esempio nasce da molte influenze, dall’Ottocento francese al cubismo di Picasso. Eppure, come nel quadro del Tomaselli e del resto in coerenza anche col personaggio Guttuso, che pure lui si impegnò nelle lotte politiche e civili, è chiara la volontà di descrivere uno spaccato siciliano, con le sue luci e le sue ombre, con l’arretratezza, ma anche con il sole e con la speranza, al di là della triste realtà del momento, del riscatto della storia. 

Marta Casuccio

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