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Quella paura di una vita come tante

Giovanni Giudici in Una sera come tante (1962) denuncia la frustrazione di una vita ripetitiva e banale, riflettendo un disprezzo per la vita “normale”, da cui molti ancora oggi vogliono emergere.

Fotografia di Ben Allan

Da un palazzo simile a decine di condomini del vicinato, il poeta scrive della vita in un appartamento al settimo piano, poco diverso dagli altri sei dello stabile, tra le urla di bambini uguali a quelle dei figli di chiunque altro, con un cane che lascia i suoi escrementi in giro, così come altre mille bestie domestiche fanno. È una sera come tante e Giovanni Giudici è intrappolato in una quotidianità che potrebbe essere quella di qualsiasi uomo, e molto probabilmente la sua è proprio «la sorte di ogni altro, non volgare / letteratura ma vita che si piega al suo vertice, / senza né più virtù né più giovinezza» [1]. «Angoscia futile» e «impiegatizie frustrazioni» tormentano un intellettuale fedele a metà alla sua vocazione, perché ha scelto di lavorare al servizio di una grande azienda nazionale, come molte altre «private persone senza storia» [2]. È la gente normale – «lettori di giornali, spettatori televisivi, utenti di servizi» [3] – dentro il cui grande contenitore nessuno vuole davvero rientrare.

“Normale” è spesso letto come “banale” e tutto si vuol essere meno che uno tra tanti: non c’è niente di più noioso di un’etichetta di normalità, che condanna ad una condizione comune e nella media, che rischia di confondere il singolo tra individui simili, ma che mai – per carità – dovrebbero essere paragonati a questo, destinato invece ad emergere sul resto. C’è “la gente” e c’è l’“io”, colui che necessariamente si distingue da una massa non meglio identificata, ma dalla quale occorre guardarsi bene e non scivolarci dentro. È una corsa verso l’autoaffermazione a tutti i costi, mossa dalla paura di non essere notati, ma sottovalutati e dimenticati. «Dovremmo essere in molti, sbagliare in molti / in compagnia di molti sommare i nostri vizi, / non questa grigia innocenza che inermi ci tiene» [4]. Se nel 1962 Giudici vuole denunciare la sorte dell’uomo frustrato da una modernizzazione che lo rende un impiegato come tanti, oggi è viva una simile paura della produzione in serie, che fa temere per un’esistenza che potrebbe valere tanto quanto un’altra, essere banale e quindi insignificante.

Banale, però, non significa privo di significato e normale non è antitetico ad unico: milioni di persone sono nate in una stessa città, migliaia hanno seguito un simile corso di studi e centinaia svolgono il medesimo lavoro, ma solo uno è il posto nel mondo che un singolo può occupare. Non occorre emergere come stra-ordinari per essere unici. La vita, infatti, è ordinariamente banale e ripetitiva e l’uomo stesso è prevedibile e noioso, ma questo non toglie valore all’esistenza del singolo, che è chiamato ad una vocazione a cui lui solo può adempiere: lui, così come tutti gli altri. Spesso però si è ancora figli del mito romantico che idealizza l’esistenza al rango di un’avventura leggendaria, quando invece la realtà è proprio quella dei «soliti urli» dei bambini e degli «escrementi» del cucciolo [5]. L’unicità passa attraverso banalità, noia, fatica e ripetitività, anche se questo accomuna l’individuo a milioni di altre persone. Rientrare in questa “media” sembra, però, quasi un insulto e allora l’uomo si sovra-pubblicizza per uscire dal gregge, si sponsorizza per essere l’eccezione alla norma. Termini come “freak”, “a-normale” e “diverso” diventano titoli di cui compiacersi ma solo nella misura in cui permettono al singolo di emergere sopra gli altri, e non, invece, di accogliere chi effettivamente viene dimenticato. Tutti vogliono emergere, ma nessuno stare ai margini.

La “società” è nel mirino di ribellioni del singolo che vuole porsi al di sopra di essa, ma mai essere respinto da questa: difficilmente chi afferma di essere un “fuori classe”, si pone effettivamente tra chi rimane fuori dalle classi sociali. Senzatetto, detenuti e minoranze migranti, oltre al comune pietismo che li vede protagonisti per il tempo di uno spot pubblicitario sensibilizzante, rimangono ignorati dai più perché interagirvi richiede la fatica di cambiare strumenti e approcci usati nei rapporti sociali della quotidianità. Sono realtà poste ai limiti della società perché questa difficilmente cambia le sue dinamiche per comprenderli. Il cambiamento necessario richiede, invece, un approccio rinnovato radicalmente, che vada oltre al buonismo di qualche donazione alle onlus, ma sappia stare in silenzio, ascoltare per incontrare panorami sociali e culturali effettivamente “fuori dalla norma” a cui si è abituati. Mentre mille “io” gridano la propria identità, pochi sono disposti a stare in silenzio per ascoltare gli “altri” che vengono dimenticati.

Alice Dusso

[1] Giovanni Giudici, Una sera come tante, in I versi della vita, a cura di R. Zucco, Arnoldo Mondadori, Milano 2000.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.

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