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Dove s’agita il Signore: Saba nell’oscura via di Città Vecchia

© Elena Sofia Ricci, 18 dicembre 2018
Fotografia di Elena Sofia Ricci

Se in Le Città Invisibili Italo Calvino si addentra nelle controverse sfaccettature dell’anima delle tappe orientali di Marco Polo, Città Vecchia (1910) di Umberto Saba rivela il quartiere in cui, più di ogni altro luogo, lo spirito del poeta ritrova se stesso, fino a condividere un’adesione religiosa con i suoi disgraziati abitanti.

Alla domanda circa in quale tra i quartieri di una città si potrebbe meglio rispecchiare, la maggior parte degli interrogati, con ogni probabilità, risponderebbe che si terrebbe ben lontana dall’immedesimarsi in borghi turpi e squallidi. Eppure è proprio nell’«oscura via di città vecchia», «tra la gente che viene e che va dall’osteria alla casa o al lupanare», che Saba trova la compagnia adatta alla sua anima, percependo persino l’infinito nell’umiltà di queste vie.

Sebbene il poeta non abiti queste zone, al ritorno da lavoro le sue ferite più profonde trovano tra questi vicoli conforto, nella miseria bieca della gente meno raccomandabile. Nella descrizione di chi popola la via affollata troviamo la malinconia che unisce i protagonisti della lirica: è la poesia onesta di Saba che non può fare a meno di trattare della cruda realtà che lo scorcio suburbano rivela.

La varietà delle contrade metropolitane si rende specchio della diversità dei caratteri umani e della stessa società: difficile, infatti, che uno spirito solitario chiami casa un affollato rione, come che un nobile benestante si trovi a proprio agio tra bettole e vili taverne. Cemento e mattoni prendono la forma delle abitudini e delle personalità di chi li abita: così come dalle creature trapela la mano del creatore, le città tradiscono i volti di chi le costruisce o di chi solo le sceglie come riparo.

In quella che definisce lui stesso una delle poesie più intense e rivelatrici della sua anima, Saba conduce il lettore negli antri più tetri e per questo più autentici della sua esistenza, scorrendo lo sguardo tra la «prostituta e il marinaio, il vecchio che bestemmia e la femmina che bega». È qua che vive la feccia della popolazione, alla quale l’autore però non riserva alcun giudizio di condanna, bensì uno sguardo pietoso: esse come lui sono «creature della vita e del dolore» ed è proprio la sofferenza ad accomunare i loro destini, come quelli di ogni essere umano.

La comunione di sentimenti fra il poeta triestino e l’umanità degradata non si arresta al mero stadio di solidarietà empatica, ma si sublima fino a diventare culla della pietas religiosa: l’accostamento alla società più turpe solleva il pensiero dell’autore e lo rende più puro, avvicinandolo al Cristo della Passione, l’uomo dei dolori per antonomasia. La presenza divina si manifesta nella disperazione e nel dramma di chi fatica a sopravvivere e di chi per la sua fragilità e sciagura diventa reietto della società.

Il contesto ambientale della città è dunque fondamentale per la caratterizzazione universale dell’esperienza del dolore: è nel quartiere malfamato che si comprende più a fondo il mistero della croce e di una salvezza che non può prescindere dalla sofferenza umana. Il trittico amore-dolore-Signore rende ragione del perché, tra tutti, proprio nelle creature più trafitte dallo strazio s’agiti Dio: nel loro dramma la vita si fa sentire più autentica. È quest’inferno che, meglio di un qualsiasi altro luogo ameno ma finto, conduce verso il paradiso.

Alice Dusso

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