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Nessuna terra è casa per l’Ungaretti migrante

Ungaretti
Disegno di Giulia Pedone

La lirica Girovago (L’allegria, 1931) denuncia l’estraneità di Ungaretti ad ogni luogo in cui approda e l’inconciliabilità tra la ricerca di cambiamento e quella di serenità.

Ungaretti soldato nel maggio 1918 è stato appena trasferito sul territorio francese: è l’ultimo anno di guerra e questo è l’ennesimo fronte che cambia, in una vita che non ha conosciuto mai dimora stabile. Nato in Egitto da genitori toscani e formatosi in Francia, in Italia è stato fervente patriota prima e rinomato accademico poi; accolto in Brasile come illustre professore e poeta, si spegnerà infine a Milano e verrà sepolto a Roma. Il corso dei suoi viaggi incrocia quello dei fiumi che attraversano le città che lo hanno accolto: nelle acque di Serchio, Nilo, Senna e Isonzo rilegge le fasi della sua crescita (cfr. Ungaretti, I fiumi, in Il porto sepolto, 1916), che raggiungerà la maturità tra i meandri del Tevere e del Rio Tiete a San Paolo.  

Quand’è sul campo di Mailly, in quel maggio del 1918, Giuseppe Ungaretti ha già abbandonato vari Paesi per stabilirsi in altri ed è arrivato ormai a denunciare un senso di inappartenenza a qualsiasi luogo abiti. «In nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare» [1] è la constatazione di uno sradicato, una verifica di vita precisa e netta: non c’è posto che possa essergli casa, luogo in cui non si senta estraneo. La poesia Girovago, posta nell’omonima sezione de L’allegria, registra il dramma di chi, dopo aver così tante volte, in così poco tempo, estratto le proprie radici da un terreno per impiantarle in un altro, le ha perse: queste si sono seccate e, assieme ad esse, è venuta meno la capacità di attecchire in un nuovo suolo.

Il poeta usa termini forti e assoluti per descrivere la sua condizione: «nessuna» terra gli è casa e «ogni» clima nuovo lo indebolisce [2]. Il tono è rassegnato e l’andamento del periodo è conciso, quasi lapidario: è lo stile che caratterizza il poetare essenziale di Ungaretti. I pochi termini, i soli necessari, compongono versi brevissimi da frasi disarticolate in unità minime, spesso ridotte ad una sola parola: questa stringatezza conferisce ai singoli lemmi una forte carica descrittiva ed emotiva. «Nessuna / parte / di terra» (vv.1-3), «a ogni / nuovo / clima» (vv.6-8), «languente» (v.11), «assuefatto» (v. 15), «straniero» (v.17), «innocente» (v.25) sono tutti versi quasi monoverbali che cadono a piombo nel ritrarre il poeta esule del mondo e la sua ricerca insoddisfatta di un riparo. La scelta dei termini è accorta, le pause tra i versi sono ben ponderate: tutta la struttura del componimento è volta a dare pieno potere evocativo alla parola, per non perderla in discorsi prolissi, ma fissarla nella sua nudità sul foglio. Sono parole banali e semplici, ma espresse nella pienezza del loro significato, ricavate da un attento lavoro di scavo e di pulizia del superfluo.

Nell’essenzialità della sua espressione, Ungaretti immortala la condizione dell’uomo che non trova compiutezza nel luogo in cui nasce e che per questo migra, cerca un riscatto dalla sua situazione di partenza. Climi e ambienti nuovi arricchiscono il singolo in termini di conoscenza del mondo e di se stesso ed è per questo che migrare è parte della natura umana da sempre. Ungaretti stesso nella già citata lirica I fiumi, ricostruendo le tappe della sua vita, riconosce come nell’Isonzo del Nord Italia si sia «riconosciuto / una docile fibra / dell’universo» [3] e come nel torbido corso della Senna di Parigi si sia «rimescolato» e «conosciuto» [4].  All’uomo con la nascita viene dato un punto di partenza, un contesto iniziale in cui muovere i primi passi: è facoltà sua decidere poi dove proseguire il suo cammino. La crescita deve essere spostamento, sia questo all’interno della stessa città o tra continenti diversi: non ci può essere sviluppo senza il movimento verso ciò che è nuovo e diverso rispetto al conosciuto.

Quando un uomo sceglie, allora, di varcare i confini della propria nazione di nascita per raggiungere un’altra non fa altro che proseguire il suo sviluppo verso la maturità, verso un luogo da conoscere e in cui riconoscersi e così è stato fin da quando la storia ha memoria. Frontiere e confini sono convenzioni sancite in un secondo momento, quando l’uomo ha iniziato a stabilirsi in una terra e a reclamarla come sua. Per potersi organizzare e regolare, ha disegnato dei limiti tra quello che era suo e quello che era di altri. Il limite permette, sì, di constatare una differenza effettivamente esistente tra popoli di culture diverse e talora difficilmente conciliabili, ma non può trasformarsi in una barriera invalicabile. Pensare di poter serrare le frontiere di una nazione è un progetto utopico che, prima di essere scorretto secondo la logica storica dei movimenti migratori, è irreale. È, di fatto, impraticabile qualsiasi provvedimento politico che intenda bloccare un flusso che non si arresta dall’alba dei tempi. Non solo sarebbe impossibile fermare le migrazioni, ma anche pensare di farlo è controproducente nell’ottica della crescita individuale dell’uomo e collettiva della sua comunità. Il contatto tra culture e tradizioni diverse è una relazione molto difficoltosa, talvolta solo parzialmente praticabile, ma la sua fatica non trova soluzione nel negare l’accesso all’altro, quanto invece nel mettersi in discussione e nel cercare un dialogo. Se non si è stimolati dal diverso, se non ci si muove dal conosciuto, si resta fermi e questa è una decisione che si è liberi di condividere, ma che non si potrà di certo imporre.

La migrazione spesso non si risolve in un solo spostamento, ma risulta in vari cambiamenti di posto lungo diversi anni. Ad ogni viaggio corrisponde una rottura con il luogo che si lascia e un’irruzione in quello in cui si arriva: traumi che fino a questo momento per il poeta nella lirica sono stati riassorbiti nel corso della permanenza, anestetizzati dall’abitudine di una nuova routine. La situazione cambia rispetto a «una volta», quando il poeta si trovava presto «assuefatto» al luogo: adesso, ad ogni nuovo ambiente, l’autore si trova «languente» [5], spossato. Lo spostamento ora è fonte di disagio, sconforto e scoraggiamento: arrivare in una nuova terra e non riuscire ancora una volta a sentirsi a casa viene percepito come una sconfitta, l’ennesima ricerca senza successo. In nessun caso il cambiamento smette di essere motivo di ricchezza, ma, a lungo andare, la ricerca del nuovo e del migliore si scontra con un’altra quête dell’uomo, quella della serenità.

La fame di crescita e progresso porta sicuramente ad un guadagno per l’essere umano – è ciò che porta l’adolescente a farsi adulto e il migrante a spostarsi –, ma ad un prezzo alto in termini di irrequietezza e insoddisfazione. L’uomo alla ricerca percepisce di essere manchevole di qualcosa e da ciò sarà sempre frustrato fintanto che si illuderà di poter trovare ciò che lo completi. La fame di cambiamento mal si concilia al desiderio di serenità, eppure entrambi, in egual modo, muovono l’essere umano. L’uomo è nomade, sì, ma fino ad un certo punto: lo sconforto di Ungaretti è dato dal fatto che, nonostante i numerosi viaggi attraverso i quali è maturato, il poeta ricerca ancora quell’unico posto che gli sia casa. Egli è cosciente che cambiare ancora non lo appagherà mai una volta per tutte: la serenità non si raggiunge soddisfacendo un desiderio che non avrà mai compimento, ma accentando la propria eterna manchevolezza nella scelta di una casa, una vocazione; una sola che per ognuno è unica e straordinaria.

Da ogni terra, invece, «me ne stacco sempre / straniero» [6], dice il poeta: l’allitterazione della “s” rende bene l’asprezza con cui l’autore vive la separazione da un luogo che non è riuscito a fare suo, in cui è sempre stato un estraneo. I paesi già visti e vissuti sono come carte sgualcite, da cui non si è riuscito a ricavare molto: Ungaretti cerca invece del materiale vergine, «un paese / innocente» [7], in cui «godere un solo / minuto di vita / iniziale» [8]. Stanco di girovagare, vorrebbe ora assaporare di nuovo l’inizio: qualcosa di ancora intoccato e puro per ricordarsi com’era non essere rassegnati, ma credere ancora di poter trovare soddisfazione alla propria ricerca. Ciò che è al suo stato iniziale, infatti, non si conosce perché non è ancora stato vissuto: questo dà motivo, quindi, di credere di poter trovare in esso la tanto agognata pace.

Al vecchio e ripetuto passato, si contrappone la prospettiva di una rinascita in un gioco di opposizioni tra termini – «nascendo» (v.18) – «vissute» (v.20); «sempre» (v.16) – «un solo / minuto di vita» (vv.21-22) –  che ha caratterizzato l’intero componimento, come tra «nessuna» (v.1) – «ogni» (v.6); «languente» (v. 11) – «assuefatto» (v.15). Nel poeta convivono, infatti, sia la rassegnazione data dalla ricerca inconclusa, sia il prospetto di un ritorno a quella vita iniziale che lo incoraggiava ad aver ancora fiducia nel cambiamento.

Ungaretti conclude, dunque, la sua denuncia rassegnata di estraneità al mondo con l’immagine di un paese innocente: il miraggio di un Eden, un posto che ancora non ha incrociato nei suoi viaggi e che sappia dargli il gusto di qualcosa di nuovo, di non-scoperto. La ricerca del poeta non si risolve, quindi, se non in un sogno appeso ad un futuro ideale, non meglio definito: non immagina di trovare casa tra mura domestiche di cui saper accettare il limite e le mancanze, ma ancora aspira ad un posto in cui la novità risolverà ogni suo desiderio. Ungaretti rimane migrante, ormai già diverso dal luogo da cui è partito e ancora distante da qualsiasi posto nuovo incontri: continua così a muoversi, con una facilità a varcare le frontiere invidiabile da chi persegue una simile ricerca, ma senza il privilegio dell’accoglienza.

Alice Dusso

[1] Giuseppe Ungaretti, Girovago, in L’allegria, Giulio Preda Editore, Milano, 1931, vv. 1-5.
[2] Ivi, vv. 1 e 6.
[3] G. Ungaretti, I fiumi, in “Il porto sepolto”, Ettore Serra Editore, Udine, 1916, vv. 29-31.
[4] Ivi, vv. 59-60.
[5] G. Ungaretti, Girovago, vv. 13, 15, 11.
[6] Ivi, vv. 16-17.

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