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Milano epifania metropolitana

Milano
Disegno di Giulia Pedone

Marco, giovane sbandato un po’ deluso della direzione che ha preso la propria vita, capisce che a Milano, nonostante tutto, è necessario cavarsela da solo. Tra flânerie urbano-baristiche e sgomberi dei centri sociali, Giorgio Fontana raffigura «la capacità di Milano di essere più reale di ogni sogno o perversione». 

Tutto comincia con una scritta tracciata su un muro nella periferia Nord-Est di Milano: Non c’è una medaglia d’argento nelle cose della vita. Marco, il protagonista del racconto Salvi quasi per caso (2014) di Giorgio Fontana [1], di quella serata ha solamente qualche vago ricordo annebbiato sommatosi a tanti altri in un’unica «grande sbronza a più livelli» [2], ma la frase, tracciata con un gesso colorato, è ben fissa nella sua memoria, poiché letta in un preciso momento della propria vita sbandatamente balorda, ovverosia «l’inizio di una nuova consapevolezza, e la fine di un periodo travagliato» [3]. La frase non ha, però, una funzione salvifica per il protagonista, ma semina un dubbio nella mente di un uomo che ormai si sente cinicamente disilluso. La serata si conclude in un piccolo appartamento in via Rombon, ai margini nord-est del quartiere di Lambrate, dove Marco, insieme alla tribù urbana di sempre, si addormenta dopo l’ennesima processione baristica nei localacci al neon della periferia milanese by night

È un’estate atlantica, «l’estate delle coperte ancora sparse sul letto, dei brividi uscendo al mattino per buttare le bottiglie vuote» [4] e Milano sembra irriconoscibile: abbandonata l’afa agostana e dimenticati i vari “non uscite nelle ore più calde” e “bevete tanta acqua”, la metropoli ambrosiana porta con sé addirittura degli odori atipici: 

Milano ad agosto era rugginosa, con un’ombra di fritto e di gas di scarico, un sentore colloso. Non quell’estate: alle narici avevi sempre un fremito di erbe, il retrogusto aspro che lasciava la pioggia – quasi, a volte, un tocco di menta e lavanda [5].

L’estate milanese, però, appare noiosamente piatta, e l’unica attività possibile per i giovani protagonisti del racconto di Fontana è quella che a loro viene meglio, cioè ubriacarsi. Dal racconto emerge una “Milano da bere” un po’ squallida e senza fronzoli ma dotata di un certain je ne sais quoi di fascino sincero e onesto, tipico di bar, tavole calde, pubs gestiti da cinesi e che con nomi banalissimi e scadenti luci al neon illuminano le vie più periferiche di una città che, dell’estetica dell’aperitivo, aveva fatto il proprio manifesto programmatico:

[…] vecchi bar che un tempo avrebbero ospitato un biliardo, forse, o sarebbero stati lo sfondo per una canzone di Jannacci – e ora nude stanze frequentate solo da muratori slavi e pensionati che si attardavano alle slot-machine, in viale Abruzzi o via Padova, in qualche traversa accanto alla Stazione Centrale oppure su a nord, oltre Gorla, dopo una lunga passeggiata lungo il Naviglio della Martesana [6].

Una Milano e una specifica geografia – via Leoncavallo via Lambrate viale Abruzzi via Padova viale Brianza – costituisce lo sfondo di fatti e fattacci, rimorsi e rimpianti, di quattro giovani che non vedono alternative rispetto ad un’esistenza un po’ balordamente inconcludente: tutti sono stanchi, delusi e stanchissimi. Più che brindare, «i cinesi» – questo il soprannome della tribù urbana –, negli ultimi tempi preferiscono berci su: «Quell’estate ogni cosa era ridotta a una promessa mancata. E se c’è una sostanza che si può misurare in termini di promesse mancate, questa è senz’altro l’alcool» [7].

La gioventù di Fontana è una gioventù che, prossima alla resa, cerca una soluzione sul fondo di bottiglie di alcool scadente, unico metodo per annientare differenze, preoccupazioni e complessità: è solo grazie ai fumi dell’alcool che il mondo, e più precisamente una città difficile, tentacolare e alacremente operosa, appare invece come «uno spazio maneggevole ed elastico, stracolmo di amore» [8].

Ad ampliare un sentimento di solitudine, una città respingente, «troppo costosa, troppo inquinata, troppo crudele, troppo ipocrita, troppo fredda» [9]. Ecco allora che il ritratto urbano che emerge dal racconto è infarcito dei cliché con cui è stato letto il capoluogo ambrosiano, da cui molti, ovviamente, preferiscono scappare. Se per molti la città era diventata un punto di fuga, una realtà da cui allontanarsi, per il giovane protagonista vale il «Mi-là-no» [10] à la Testori: «Ma io non avevo altro posto dove andare: e infondo la amavo davvero, quella città. Era mia, tutta mia» [11]. È un sentimento di appartenenza irriducibile quello che emerge dalle considerazioni di Marco, radicatosi nel quartiere in cui è nato – il Giambellino –, per poi diffondersi dalle parti di piazzale Istria e nelle varie zone in cui ha lavorato. È la Milano scorbutica ad essere apprezzata dal protagonista, che getta uno sguardo di affetto atipico su una città tutt’affatto lontana dagli stereotipi da turista ma che emerge nella sua scarna ma brutale bellezza

Di Milano mi piaceva quello che non piaceva a nessuno: il volto scontroso, a volte brutale, ma sempre sincero. Il modo in cui potevi ignorarla, mentre lei faceva altrettanto con te […]. O il fato che, come amavo ripetere, la sua bellezza rifiutasse ogni collocazione in una guida turistica, persino ogni identificazione [12].

Oltre che per le serate alcoliche, questa Milano difficile e schiva è sede elettiva di un amore, quello tra Marco e Annalisa, che viene presentata attraverso una lista dal nome: «Dieci cose in ordine sparso su Annalisa» [13]. La relazione tra i due finisce però in malo modo, sostituita da un fastidioso silenzio inevitabile dopo le rotture troppo violente e sofferte. A tempi di incertezze lavorative, rimpianti passati e dubbi su come dare una direzione all’incirca precisa sulla propria vita, si accompagna ora anche una solitudine che ben si confà al profilo di una città svuotata, percorsa in tutti i suoi quartieri da un protagonista che, in numerose passeggiate urbane in compagnia dalla solita bottiglia di vino, cerca un po’ di consolazione da un presente inconcludente e da un porco avvenire. La sbronza, dopo tali vagabondaggi alcolici, è inevitabile, e Gringo – questo è il suo soprannome – si osserva con fare ironico ma mai amaramente disperato: 

Sedevo lì con le mani buttate fra le gambe, la mascella che si staccava piano. Un paio di volte vidi un grasso ubriacone che dormiva su una panca lì accanto, e pensavo ridacchiando (oh, la gioia di essere appena sbronzi, appena sotto il livello della coscienza): Be’? È questo che vuoi, Gringo? E ridevo. [14]

Ecco allora che dalle riflessioni alticce di Gringo emergono due Milano. La prima è la città operosa e che chiede ai propri cittadini di fare qualcosa nella vita, di assumersi le proprie responsabilità e di essere partecipanti attivi della “città che sale” e che si allarga, una città nella quale inevitabilmente il tempo è anche denaro: «La fiaba moralista della città fa coincidere da sempre l’esistenza con il lavoro, al di là di ogni luogo comune: nella leggenda del milanese che si ammazza in ufficio c’è molto di vero» [15]. L’“altra Milano” è, invece, una città di irregolari che alla vita tutta lavoro e dané oppongono un’esistenza fatta di serate e di bevute in compagnia o, meglio ancora, in solitaria: «Per fortuna, Milano è sempre stata anche una città perfetta dove bere. È possibile acquistare alcool a qualsiasi ora del giorno e della notte […]; un uomo che si sbronza da solo in un bar non è un grave problema sociale; la propensione degli abitanti a farsi gli affari propri rende tutto molto più solitario e terribile, ma consegna anche un grande libertà a chi beve» [16].

Le giornate sembrano passare così, senza una meta e senza un senso, tra bevute pomeridiane, qualche breve lettura e ore e ore passate su Facebook. Un giorno però Livio, uno dei quattro «cinesi», citofona a Marco per comunicargli la partenza ormai prossima per Porto. Anche lui, così come tanti altri giovani e giovanissimi, milanesi e non, sceglie di partire, dopo aver constatato come a Milano, in realtà, abbia ben poche radici e, soprattutto, zero possibilità concrete e motivi per restare.

In un breve dialogo tra i due amici, dalle parole di Livio emerge la consapevolezza di una tendenza cronica a gettare via la propria vita: «Ma ti rendi conto di quanto facciamo schifo?» [17]. Gringo, quasi sordo alle considerazioni dell’amico, oppone alla sua apparente presa di maturità un atteggiamento di sminuito qualunquismo anche un po’ immaturo: «Dopotutto non facciamo del male a nessuno, no? Ti pare che facciamo del male a qualcuno? E passerà. Fidati che passa. Non c’è bisogno di andare in Portogallo per farla passare» [18].

All’indomani, l’incontro è fissato in piazzale Argentina. È lì, tra le luci dei negozi e il traffico di corso Buenos Aires, che i quattro amici riflettono sull’imminente partenza di Livio, tra sorrisi forzati e approvazioni a malincuore. Alla presa di responsabilità del ragazzo corrisponde una riflessione di Marco sui giorni normali, i giorni da sobrio: «[…] i risvegli con il corpo in perfetto ordine, nessuna tossina ad avvelenarti la tesi e il cuore, nessuna incapacità motoria» [19]. Ma non c’è tempo per i rimpianti e per i sensi di colpa, occorre onorare l’ultima serata di Livio prima della sua partenza, della sua entrata in un “dover essere” responsabile e operoso.

Prende il via l’ennesima flânerie urbano-baristica, all’insegna di una topografia milanese più periferica: «Semplicemente imboccavamo la circonvallazione esterna e guidavamo senza meta, fermandoci ogni mezz’ora circa […]; tutto quello che ci serviva era sapere che lì fuori la città era diversa, non era più il posto che ci feriva o da cui alcuni volevano fuggire, ma soltanto un nugolo di buio ed elettricità» [20]. Alla dimensione periferica ed esterna corrisponde quindi una sorta di anonimato consolante in cui i protagonisti finalmente si sentono distanti dalle numerose responsabilità della vita adulta. La processione continua e, ubriachi marci, «i cinesi» si spingono fino ai confini più estremi della periferia, «in quel cuneo quasi deserto dove Milano è solo un frammento che divide Sesto San Giovanni e Cologno» [21].

La serata si conclude in un centro sociale, dove tra discorsi sulla politica e sui recenti sgomberi, Marco, sbronzo marcio, si allontana, preferendo alla caotica fauna notturna una solitudine più silenziosa dal sapore di gin, vodka e rhum.

Ma ecco che, ad un certo punto, a Gringo torna in mente la scritta che appare nell’incipit del racconto, che solo adesso viene compresa dal ragazzo. L’uomo si rende conto che fino a quel momento tutte le ubriacature, i pomeriggi passati in compagnia di vino scadente e di vodka del Discount, sono state inevitabili in quanto cose più reali che potessero succedere:

[…] dalla fine della mia relazione con Annalisa alla perdita del lavoro, era come se qualsiasi cosa potessi fare avesse perso ogni contorno, ogni peso: una diminuzione di materia […], e bere mi restituiva alla presenza, alla verità del mio corpo [22]

Ma Marco, in preda ai deliri dell’alcool – si sa, in vino veritas – dice di aver sottovalutato «la capacità di Milano di essere più reale di ogni tuo sogno o perversione» [23]. La Milano-rifugio di Marco lascia spazio, ora, alla sua più pragmatica concretezza, facendo emergere il ritratto di una Milano in cui i conti si pagano, una città disposta anche a prenderti a pugni in faccia, se necessario, ma che ad ogni angolo può nascondere una personale epifania metropolitana. Quella di Marco era lì, su quel muro nel quartiere di Lambrate: «Questo successe a me. Non c’erano medaglie d’argento, e nessuno mi avrebbe tirato fuori da quel buco: avrei dovuto cavarmela da solo» [24].

Ad un Marco cinico, disilluso dalla vita e senza speranze, ora si sostituisce un ragazzo come tanti che pensa a tutte quelle cose che avrebbe potuto fare con Annalisa se solo non avesse deciso di rinunciare alla storia d’amore per egoismo o rassegnazione. Ai vagabondaggi sbronzi, ora, nella mente di un Marco in preda a nostalgici rimpianti, prendono posto flâneries d’amour in compagnia dell’ormai ex compagna. Gringo, accasciato a terra, riflette sulla necessità di dover cambiare, di assumersi le proprie responsabilità, di smettere con l’andirivieni della giovinezza per fare l’ingresso in un’età adulta e matura non procrastinabile oltre: va definita una direzione, una meta, un’idea robusta della propria presenza nel mondo.

Ecco allora il ruolo nevralgico di Milano, una città atipica e periferica che emerge con un’icasticità sorprendente dalle pagine del racconto di Giorgio Fontana, una città difficile, certo, ma caratterizzata ancora da una fame di condivisione abbastanza irrealistica

eravamo cresciuti con l’idea della fine iniettata nel sangue, la fame di condivisione che niente poteva spegnere perché ogni condivisione era inquinata in partenza. Quanta fame, e così poco con cui placarla [25]

ma ben più forte di ogni sete di birra e di vino. 

Alessandro Crea


[1] Salvi quasi per caso di Giorgio Fontana apre una raccolta di racconti di diversi autori dedicati alla città di Milano e pubblicata da Sellerio editore nel 2015.
[2] G. Fontana, Salvi quasi per caso, in Balzano, Cataluccio, De Benedetti, Di Stefano, Fontana, Janeczek, Milano, Sellerio editore, Palermo, 2015, p. 12.
[3] Ibidem.
[4] G. Fontana, Salvi quasi per caso, op. cit., p. 14.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] G. Fontana, Salvi quasi per caso, op. cit., p. 15.
[8] Ivi, p. 17.
[9] Ivi, p. 18.
[10] G. Testori, La mia Milano, «Corriere della Sera», 9 marzo 1982. Si cita da ID. Il dio di Roserio, Mondadori, Milano 2002, p. 155
[11] G. Fontana, Salvi quasi per caso, op. cit., p. 19.
[12] Ibidem.
[13] G. Fontana, Salvi quasi per caso, op. cit., p. 20.
[14] Ivi, p. 24.
[15] Ibidem.
[16] G. Fontana, Salvi quasi per caso, op. cit., p. 25.
[17] Ivi, p. 27.
[18] Ibidem.
[19] G. Fontana, Salvi quasi per caso, op. cit., p. 29.
[20] Ivi, p. 30.
[21] Ivi, p. 33.
[22] Ivi, p. 38.
[23] Ibidem.
[24] Ibidem.
[25] G. Fontana, Salvi quasi per caso, op. cit., p. 40.

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