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L’assurdità della vita da manuale

La cantatrice calva
Disegno di Giulia Pedone

Ionesco, maestro del teatro dell’assurdo, mette in scena con La Cantatrice calva (1950) i paradossi e le incoerenze di una vita “normale”.

I signori Smith si presentano: accomodati nel loro salotto, elencano, vivanda dopo vivanda, ogni portata della cena appena consumata, avendo cura di sottolineare come l’olio adoperato sia di gran lunga migliore di quello di altri droghieri in città e come adesso ci sia quest’altro droghiere rumeno, specialista in yoghurt, un alimento ottimo per stomaco e reni. Così perlomeno afferma il dottor McKenzie-King, «un bravo medico» [1] perché non prescrive mai rimedi che lui non ha prima provato su di sé, operazione al fegato compresa. Perché allora questa è riuscita su di lui e non sul paziente? «Un medico coscienzioso dovrebbe morire insieme col malato, se non possono guarire assieme» [2]: così almeno fa il comandante che affonda con la nave. Si sa, però, «che tutti i medici sono ciarlatani» e che «solo la marina è sana in Inghilterra»: certo, «ma non i marinai» [3].

In un tempo scandito solennemente da una pendola che non sa contare i minuti, ne La cantatrice calva si susseguono dialoghi regolati dal “senso comune”, l’insieme di verità universalmente riconosciute che nutrono luoghi comuni e stereotipi. Sulla base di “ciò che si dice essere vero”, la famiglia Smith ha costruito una vita fatta di convenzioni tradizionalmente accettate, ricalcando l’esempio della famiglia inglese “da manuale”. È proprio da un manuale, L’inglese senza fatica, che Ionesco prende in prestito i personaggi. Il testo, basato sul metodo Assimil, metteva a contatto lo studente principiante con i suoni e le frasi idiomatiche inglesi più comuni. Lo stesso autore afferma che «fin dalla terza lezione venivano messi l’uno di fronte all’altro due personaggi […]: il signore e la signora Smith, una coppia di inglesi. Con mia grande sorpresa, la signora Smith informava il marito che essi avevano molti figli, che abitavano nei dintorni di Londra, che il loro nome era Smith, che il signor Smith era impiegato, che avevano una domestica, Mary, pure lei inglese e che avevano, da vent’anni, certi amici di nome Martin». Era un tripudio di luoghi comuni e verità ovvie, che l’autore ha spinto, nella sua opera, fino all’assurdo [4]. Il senso comune, infatti, non regge oltre le prime righe: se sviluppate, le “verità tradizionalmente accettate” entrano in contraddizione tra di loro e risultano prive di senso.

L’incoerenza dei dialoghi emerge da un tessuto linguistico altrettanto discontinuo. «Raramente capita d’imbattersi in autori che usino le parole con altrettanta libertà e spregiudicatezza, staremmo per dire irriverenza. Ionesco le deforma, le mutila, le concerta nei più bizzarri e gratuiti giuochi di rime e di assonanze, giungendo spesso a farsene degli strumenti esclusivamente sonori. […] I risultati, per lo più, sono francamente comici. […] Si tratta, per dir così, di una comicità funzionale, strettamente legata al tipo di personaggi posti in scena e al processo che l’autore fa loro subire, e per ciò stesso, infinitamente amara» [5]. L’uomo nella pièce tenta di imporre un ordine all’incoerenza del mondo tramite le convenzioni sociali, ma fatica a comunicare con gli altri. Il suo stesso linguaggio è disarticolato: non riesce ad elaborare idee logiche che non siano banalità e continua ad interrompere e ad essere interrotto dagli altri personaggi, anch’essi travolti da emozioni che non riescono a esprimere. Lo scontro di parole arriva al climax nell’ultima scena, dove le due coppie protagoniste si urleranno nelle orecchie a vicenda, prima che le loro voci cessino di colpo e il copione riparta dall’inizio, con le medesime battute recitate dalle coppie alternate nei ruoli. L’assurdità dei dialoghi arriva al suo picco, ma, dopo averlo raggiunto, riparte uguale, anche se in vesti diverse.

Ionesco porta all’esasperazione i luoghi comuni e la tipizzazione di situazioni per dimostrare come questi falliscano a rappresentare la realtà, smascherando la bugia sull’esistenza di una normalità. Per rappresentare l’illogicità della vita, l’autore parte dalla situazione meno assurda che ci sia: l’esempio da manuale, la versione inglese della “famiglia del Mulino Bianco”. Sviluppando poi quello che dovrebbe essere l’emblema della normalità, ha ottenuto come risultato situazioni paradossali e ridicole.

La normalità è una bugia, ma talvolta credervi è confortante: Ionesco suscita le risate nel suo racconto, forse anche perché tramite esso smaschera l’uomo a cui piace raccontarsi questa stessa storia e questo, scovato, ride dei personaggi, ma anche di sé. Gli Smith, coppia inglese seduta nel loro salotto inglese, sono in un qualche modo rassicuranti, perché, date le loro pantofole inglesi e il loro giornale inglese, si sa già che anche la loro poltrona sarà inglese, così come le loro calze: le aspettative sono confermate, esaudite. Si vorrebbe un po’ tutti essere i signori Smith perché rientrare in un modello di normalità solleva dalla fatica che richiede, invece, vivere la propria unicità e differenza.  L’ordine da “famiglia del Mulino Bianco” dà pace e tranquillità, ma è una farsa: Ionesco vuole svegliare chi crede ancora, anche se in minima parte, a questo ideale.

La cantatrice calva esce nel 1950, accolta con stupore scandalizzato dalla società del dopoguerra: una platea che ha conosciuto bene l’irrazionalità del conflitto e che ora fa il possibile per fuggire dall’alienazione che ne risulta. Alla crisi e all’angoscia che la costante presenza della morte ha prodotto, la società risponde con riti, convenzioni e regole che tentino di tenere in piedi un ordine che dia senso alla vita. Quest’ultima, però, continua a sfuggire ad ogni modello e luogo comune, riconfermandosi come assurda. L’interno borghese che ripete sempre gli stessi riti e le medesime “frasi fatte” è un rifugio, che i protagonisti si tengono stretti, anche quando varca i limiti dell’irragionevole. «I fantocci della Cantatrice calva sono le conchiglie vuote che le onde trascinano. Schemi ormai senza contenuto in una società che continua a portarsi appresso le ampolle di essenze irrimediabilmente evaporate e che nel puntiglioso quanto grottesco rispetto del rituale […] s’illudono di eludere le domande senza risposta. Qui però bisogna soggiungere, per non indurre il lettore in equivoco, che nonostante tutto la comicità […] costituisce l’antidoto e la felice contraddizione interna che dà, a questo e agli altri testi di Ionesco, il giusto e completo sapore» [6]. In un panorama che vede gli uomini nascondersi piuttosto che confrontare la vita nella sua assurdità, Ionesco chiama questi fuori, ironizzando sui loro rifugi.

L’autore, infatti, non intende fare alcuna critica sociale o di costume. «La sostanza è molto più impegnativa e tormentosa, di una natura che tende in qualche modo all’assoluto: la ricerca del senso e del perché della vita. […] È un’ansia genuina, per quanto sapientemente controllata, che costituisce la forza, o forse il presupposto della forza drammatica e poetica di questo teatro, il quale certamente per questa via, favorito dal tramite della forma comica, ha stabilito il suo tenace e fecondo contatto con il pubblico di oggi» [7]. Ad affezionarsi ad un modello di normalità, infatti, non è solo la società del dopoguerra, ma è l’uomo di ogni epoca: l’“esempio da manuale” suggerisce un tipo di vita, che talvolta si crede possibile. Immaginare che esista una forma ideale di esistenza in cui tutto ha un senso ed è spiegato è una debolezza in cui spesso si cade. Se la normalità esistesse, allora ci sarebbe la possibilità di raggiungere un modo di vivere meno irregolare e incoerente e, quindi forse, più facile. La domanda circa il senso della vita non conosce, però, risposta univoca, ma rimane un’incognita diversa per ognuno. Nella sua perenne contraddizione con se stesso l’uomo rimane incompleto e irrisolto: a-normale, per l’appunto, ma eccezionalmente unico.

Alice Dusso


[1] E. Ionesco, La cantatrice calva, Einaudi, Torino 1958, p. 15.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 18.
[4] cfr. G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta, Letteratura.it, vol. 3b, Pearson, Torino 2012, p. N149.
[5] G. R. Morteo, Prefazione a La cantatrice calva, Einaudi, Torino 1958, p.8.
[6] Ivi, p. 10.
[7] Ivi, p. 9.

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