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La crudeltà del “Paradiso” di Mieko Kawakami

Heaven
Disegno di Giulia Pedone

Heaven di Mieko Kawakami è un romanzo di iperrealistiche tristezza e rinascita, in cui due ragazzi delle medie cercano di sopravvivere ai continui atti di bullismo di cui sono vittima.

In giapponese esiste un’espressione che in italiano potremmo tradurre con “leggere l’aria”: 空気を読む (kuuki wo yomu). Si riferisce alla capacità di capire quando parlare e quando restare in silenzio, alla ricerca di un equilibrio relazionale che non ferisca il nostro interlocutore e non lo costringa a dover esplicitare le sue necessità. È una specie di danza verbale, che si gioca tutta in absentia e nell’essere costantemente tesi al bisogno dell’altro. I capolavori della letteratura giapponese risentono di questa peculiarità culturale e chi non è abituato alla narrativa nipponica resta spiazzato da quella che inizialmente appare come una mancanza o un artificio. Ma un romanzo autenticamente giapponese è un romanzo in qualche modo muto, rarefatto. Un’increspatura sulla corrente di un fiume. Heaven, di Mieko Kawakami (Edizioni e/o, 2021), n’è l’esempio perfetto.

In una cittadina del Giappone anni Novanta, un ragazzo e una ragazza di quattordici anni subiscono continui atti di bullismo. Frequentano la stessa classe e non hanno amici. Lui, voce narrante e protagonista, soffre di un forte strabismo e viene appellato come «Occhi storti». Lei, Kojima, si trascura e viene presa di mira per l’odore che emana.

Tuttavia, la sporcizia di Kojima è una scelta, cioè il suo modo di stabilire un contatto con il padre (povero) che vede raramente e cui è profondamente legata. Occhi storti impara a conoscerla tramite un fitto scambio segreto di lettere e pochi ma significativi incontri di persona, mentre in classe si ignorano e assistono impotenti alle angherie che l’altro riceve.

Rendersi conto della quotidianità orribile che l’amica subisce innesca una dinamica di rispecchiamento e rompe il muro eretto ad hoc per estraniarsi durante gli attacchi. Kojima reagisce al dolore cercando di normalizzarlo e attribuendo un senso alla violenza che le piomba addosso, mentre Occhi storti si ribella davanti all’ipotesi che la sua vita possa essere connotata solo dalla ferocia. In lui la sofferenza, connessa all’affetto che prova per Kojima, funziona da fattore riumanizzante che rende impossibile il distacco.

Kawakami non scade mai nel didascalico. Il romanzo avanza per affastellamenti di eventi, martellanti e ripetuti, che simulano la realtà atroce vissuta dai protagonisti. In questo modo la bildung di Occhi storti e Kojima si consuma rispettivamente nella “correzione” e nella follia.

Il bullismo non trova mai spiegazioni, se non nel dialogo che Occhi storti ha con uno dei suoi tiranni, Momose. Un apatico nichilista che affronta il tema da un taglio particolare, cioè riconoscendo nel sopruso esercitato la propria volontà di potenza. Così come i bulli non si redimono né pentono il finale non concede grazia, se non a sprazzi, a chi è loro vittima. In Heaven non c’è giudizio, ascensione o caduta: solo una tristezza sfiancante che buca la pagina.

Uno degli aspetti di maggiore interesse del romanzo è la percezione del proprio corpo come un oggetto da parte dei due protagonisti. Non è un caso che di Occhi storti resti anonimo e che il lettore lo conosca solo per un suo tratto fisico.

Si tratta sia di una forma di difesa, il corpo orficamente inteso come soma/sema nel momento in cui diventa una cella dalle inferriate perennemente violate; sia di una disaffezione graduale alla propria persona, come reazione al fatto che la propria pelle non sia toccata mai da un gesto di bene. Kojima lo spiega in un dialogo.

«…Siamo già più o meno delle cose […]. Non diventeremo mai veri oggetti, ma per certi versi lo siamo già. […] E non possiamo farci granché, per il fatto stesso che in un certo senso siamo delle cose e le cose non possono né muoversi, né parlare, né pensare, o sbaglio?» [1].

C’è un episodio spartiacque nel romanzo, in cui Occhi storti viene bendato da Ninomiya e gli altri bulli. La sua testa viene usata come pallone da calcio e in questo frangente si spacca il naso e perde i sensi. Ecco che subentra un rigetto senza guarigione, perché la consapevolezza di essere oggettificato e di non avere valore umano agli occhi della società lo fa sprofondare in una depressione senza sbocchi. Considera con lucidità il suicidio, inseguendo l’idea come un’opzione di libertà.

Ma il corpo è anche uno strumento di lotta, è un linguaggio. Quando Ninomiya e il seguito di bulli braccano Occhi storti e Kojima obbligandoli ad avere un rapporto sessuale davanti a loro, solo il gesto estremo di Kojima evita che Occhi storti la penetri in pubblico. Davanti all’impotenza incredula dell’amico, la ragazza mostra il suo corpo nudo. La nudità scelta e non imposta crea un vuoto di potere, o meglio: un’affermazione del proprio. L’agency di Kojima li salva, al prezzo della sua sanità mentale già compromessa da anni di abusi. Verosimilmente, nella scrittura di Kawakami la vita non segue un percorso rettilineo ed escatologico.

Perciò il cuore di Heaven sta tutto nel suo titolo antifrastico, che allude al nome del quadro per cui Occhi storti e Kojima prendono un treno e che però, alla fine, non vedono. Non esiste dimensione extra terrena che possa dare sollievo all’inferno quotidiano dei due protagonisti e se la gioia c’è, se alla fine un Paradiso esiste, è sempre nella miseria di una realtà impenetrabile, solo per un attimo attraversata dalla luce.

Giulia Annecca


[1] Mieko Kawakami, Heaven, Edizioni e/o, Roma, 2021, p. 60.

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