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Holden era davvero così incazzato?

Disegno di Giulia Pedone

Ribelle, anticonformista e desideroso di protrarre all’infinito “l’ora seria”, quella che ben si confà alla presa di consapevolezza della maturità. Romanzo di formazione letto da generazioni, Il giovane Holden (1951) di J. D. Salinger ha ancora qualcosa da dire ai lettori del XXI secolo?

È il 1951 quando sugli scaffali delle librerie americane compaiono dei libri con una copertina tutta bianca: è proprio J. D. Salinger, l’autore de Il giovane Holden, a insistere sulla semplicità estrema e minimalista per il paratesto del romanzo che racconta le (dis-)avventure di Holden Caulfield. L’autore, infatti, desiderava che il libro venisse scelto per il contenuto e non per la copertina, spesso ingannevole. La volontà dello scrittore viene rispettata anche per la traduzione italiana di dieci anni più tardi: gli italiani conosceranno il protagonista del romanzo solamente nel 1961, quando verrà pubblicato da Einaudi in un volumetto bianco e privo di indicazioni autoriali ed editoriali.

Holden, ormai, ha più di sessant’anni. Anzi, più di novanta se si pensa che quando raccontava «la roba da matti che mi è capitata sotto Natale» [1] ne aveva già diciassette. Il ragazzino, quindi, è cresciuto, ha superato il limen della maturità adulta e ha vissuto una vita che il lettore può solo immaginare. Una domanda, però, può sorgere nel 2020: Holden ha ancora qualcosa da dire ai lettori – soprattutto ai giovani – contemporanei? 

Inutile soffermarsi troppo sulla trama e su tutti quegli aspetti che ormai molti conoscono, essendo il libro entrato nelle letture quasi obbligatorie delle scuole. Qualche accenno, però, è necessario.
In breve, il narratore del romanzo è lo stesso Holden che narra le proprie vicissitudini: sedicenne, appartenente ad una famiglia statunitense e benestante, il ragazzo viene espulso per l’ennesima volta dalla scuola poiché privo di qualsiasi propensione allo studio e con un libretto dei voti di colui che i libri li ha aperti – per sbaglio – solo qualche volta. Il romanzo è ambientato tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta a New York. Si è in prossimità del Natale, e il protagonista, ormai diciassettenne, ritorna indietro nel tempo per raccontare il breve periodo di tempo – circa tre giorni – che inizia con l’espulsione dalla Pencey, una scuola della Pennsylvania. Il giovane decide di vagabondare per New York perché ha paura a tornare a casa dai propri genitori, ai quali, ovviamente, avrebbe dato un’ennesima delusione. 
La maturità, se di maturità si può veramente parlare, arriverà a fine libro grazie alla vecchia Phoebe, la sorella, forse l’unico amore, l’unico affetto di Holden, che nel romanzo si mostra solo come un lagnoso ragazzino borghese che, lungi dall’assumere i tratti da ribelle, anticonformista, incazzato, che molti lettori esaltati gli hanno affibbiato, mostra in realtà caratteri quali un egoismo lagnoso e a tratti snervante.

Si diceva che è inutile soffermarsi sulla trama, nota ai più, o recuperabile praticamente ovunque, meglio concentrarsi sulla fisionomia del protagonista – e voce narrante – del romanzo. Occorre partire dall’inattendibilità del narratore. L’incipit del terzo capitolo, infatti, ben sottolinea l’atteggiamento di quest’ultimo: «Sono il bugiardo più pazzesco che abbiate mai incontrato […]». Da un lato questa frase fa emergere una caratteristica dell’adolescente, certo, ma dall’altro – e su questo aspetto ci si è soffermati poco – analizzando l’intera compagine romanzesca ecco che la frase avvalora, corrobora e definisce l’unico vero tratto che viene esplicitamente dichiarato dal narratore: il suo essere un mostruoso bugiardo. È necessario quindi valutare pagina per pagina l’attendibilità del narratore: ecco che il lettore si trova di fronte un romanzo nella lettura del quale è sempre richiamato al compito di comprovare o meno la veridicità di ciò che gli viene detto dallo stesso protagonista.

Il giovane Holden è stato il libro di una generazione. Il protagonista, con i suoi modi rozzi, da classico adolescente che senza mezzi termini racconta la propria storia, ha suscitato reazioni diverse nei lettori di ogni generazione, assurgendo a libro ha per anni costituito un exemplum vitae. Poco importa se per contrasti con la famiglia, se per odio verso la scuola, per quel rifiuto che ogni adolescente ha per il proprio tempo, giovani e giovanissimi hanno letto ne Il giovane Holden la propria frustrazione per il mondo, per il conformismo, per le ipocrisie della realtà forse troppo stretta. 
Con la sua lingua, il suo linguaggio parlato, il romanzo ha costituito un modello per molta narrativa nordamericana. Il racconto del ragazzo, senza filtri e trasparente, un fiume di parole irrefrenabile, rifrange quello che è un atto di ribellione nei confronti di quelle che sono delle regole precostituite, delle imposizioni: la scuola, in primis, ma poi le relazioni con gli altri, il rapporto soffocante con i genitori.

Holden parla tantissimo, ovviamente, ma al lettore è come se decidesse di non raccontare approfonditamente molte cose. Il non detto, paradossalmente, è il leitmotiv del romanzo. Perché Holden è così arrabbiato con il mondo? Del suo passato sappiamo poco. Di fatto, è proprio il patto narrativo del romanzo che è cadenzato sulle note del silenzio schivo per tutto ciò che concerne il suo passato: «Se davvero volete sentirne parlare, la prima cosa che vorrete sapere sarà dove sarò nato, e che schifo di infanzia ho avuto, e cosa facevano i miei genitori prima che nascessi […], ma a me non va di entrare nei dettagli, se proprio volete la verità» [2]. 
Insomma, è il ribaltamento di qualsiasi patto narrativo della tradizione romanzesca. Lasciando questo scorbutico incipit, e ritornando sul protagonista del romanzo, occorre domandarsi quanto sia arrabbiato Holden. Può davvero essere considerato il simbolo di una gioventù ribelle che vede nella società solamente delle mere imposizioni? 

Assolutamente no.
Una premessa, però, è necessaria. Siamo di fronte ad un libro che assume connotati – e significati – diversi in base all’età in cui si legge. A diciassette anni, forse, può diventare il libro pieno di sottolineature che porti sempre con te, ma già a venticinque Holden vorresti averlo di fronte per dirgliene quattro.

Il problema de Il giovane Holden non è il romanzo in sé, ma i suoi lettori. Sì, capita anche questo a volte; inutile negarlo. Basta guardare qualche recensione online per vedere con quanta banalità viene tratteggiato il protagonista del romanzo. Sinceramente tutta questa incazzatura, questa ribellione, questa voglia di andare contro le regole della società non la si legge per niente. 
Anzi, si rientra nel classico luogo comune per cui se vai male a scuola, se sei uno che non ha voglia di far nulla – ed Holden è esattamente così – evidentemente sei un genio ribelle se decidi di raccontare la tua storia e di andartene dalla scuola in cui, ancora una volta, hai fallito.

Il giovane Holden è la storia di un ragazzo che di talento ne ha poco – d’accordo, sa scrivere qualche tema e un Professore vede in lui uno «fatto per lo studio», e il lettore si domanda dove ciò sia minimamente ravvisabile -, ma di fatto la storia che viene raccontata al lettore è quella del classico figlio di papà che, senza voglia di studiare, decide di prendersi qualche giorno perché incapace di affrontare le proprie responsabilità.

La ribellione, di fatto, è solo la maschera di un ipocrita borghese e viziato. Tutto questo genio ribelle in Holden si fa fatica a vederlo. Che poi, ribelle sarebbe l’atteggiamento di uno che decide di lasciare la scuola per fare altro – che poi, ribelle fino a che punto? – ma occorre ricordare come Holden dalla scuola sia stato cacciato per gravi insufficienze. Dove sarebbe la ribellione? O meglio, dove finisce la ribellione e inizia l’essere un inetto fatto e finito?

Se bastasse la poca voglia di fare e qualche parolaccia qua e là per assurgere a «eroe di una generazione», per diventare «colui che decide di scappare da un mondo falso, ipocrita e privo di immaginazioni» – e sono frasi di alcune brevi recensioni online – allora di ribelli ce ne sarebbero tanti altri, forse troppi.
L’unica vera ipocrisia, nel romanzo, è proprio quella di Holden. Facile fare l’anticonformista, colui che scappa, che decide di andarsene, quando però sai che hai dietro una famiglia benestante – con serva annessa, citata più volte da Holden – pronta a salvarti e a difenderti in ogni situazione. 
Perché sì, Holden verso la fine del romanzo immagina di fuggire, di trovare una moglie, di cercare un nuovo lavoro e di abbandonare per sempre le sue radici, ma fin da subito si capisce che le sue sono delle piccole seghe mentali tipiche di ogni ragazzino viziato che, nonostante un breve momento di disubbidienza, in realtà sa benissimo che tornerà alla stessa vita di sempre.

E come dargli torto.
Forse le letture che sono state date dell’Holden di Salinger sono letture che sì, potevano essere adatte alla generazione di giovanissimi che negli anni ’60 hanno letto il romanzo – scritto, come si diceva, in una lingua a quei tempi anche nuova – ma che già dagli anni ’80 avrebbe dovuto mostrare i suoi tanti, forse troppi limiti. Inutile soffermarsi a cercare varie complessità nella fisionomia del personaggio quando, di fatto, viene mostrato solamente un lato: l’essere un viziato che, nonostante si lagni in continuazione della sua vita, ritorna esattamente nel luogo da cui questa finta opposizione ha avuto inizio.

In conclusione, Holden ha ancora da dire qualcosa ai giovani ragazzi – agli adulti è impossibile dica molto – del 2020? Difficile da dire, perché ogni lettore purtroppo (o per fortuna) legge nel protagonista cose molto diverse, ma una cosa è certa: ci sono libri che hanno molto più da dire.
Il problema per Holden è l’ora seria, l’entrata nella maturità, nella consapevolezza delle proprie responsabilità: il protagonista fa di tutto per rimandare questo momento e, nell’attesa, cercando di tirar mattina, incontra dei personaggi che caratterizzano quella che no, non è tanto l’avventura notturna di un ribelle intellettuale che ha il solo problema di non essere capito dagli altri, quanto piuttosto una processione urbano-baristica piuttosto inconcludente.

Fa ridere inoltre pensare al grande paradosso che sottostà alla lettura del romanzo del ’51. Eletto a simbolo dell’anticonformismo, della citatissima ribellione, Il giovane Holden è diventato il libro che obbligatoriamente – o quasi – viene fatto a leggere a tutti gli studenti del II° anno di liceo. Così, per dare l’immagine di un ragazzino ribelle che «però poi trova la sua strada»: questa è infatti la lettura che viene data del romanzo.
Ma Holden la strada non l’ha trovata, e forse non l’ha neanche cercata. 
Meglio leggere – o dare da leggere – altri romanzi di formazione, e chiedersi solamente se Holden, alla fine, abbia scoperto dove vanno le anatre quando a Central Park il lago diventa ghiacciato. Il resto, forse, interessa poco ad un ragazzo del XXI secolo, che di ribellione e di trasgressione può trovare ben altri modelli molto più validi.

Alessandro Crea


[1] J. D. Salinger, Il giovane Holden, Torino, Einaudi, 2014, p.3
[2] Ibidem

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