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La classe operaia va in paradiso: l’uomo, la macchina e la solitudine

La classe operaia va in paradiso, grande capolavoro di Elio Petri, racconta con crudezza le condizioni estreme della classe operaia, mostrando la sconcertante attualità della “nevrosi del lavoro” nell’individuo immerso nella sua solitudine sia sociale che esistenziale.

Fotografia di Mauro Gigli

Lulù Massa (Gian Maria Volontè) è un operaio lombardo dedito totalmente al lavoro tanto da essere il riferimento della dirigenza per i parametri del cottimo aziendale, un estremo stakanovismo che attira su di lui il livore e l’antipatia dei suoi colleghi di fabbrica. La sua vita va avanti scandita dai ritmi produttivi fino a quando, distratto dagli insulti dei colleghi, la macchina non gli porta via un dito. Il trauma lo spinge a rivedere la propria vita e la sua condizione di miseria e servitù portandolo a diventare contestatore estremista all’interno della fabbrica. Disperato, cerca supporto e consiglio in un vecchio collega, Militina (Salvo Rondone) ormai ricoverato in manicomio. A causa delle sue nuove posizioni politiche e dei disordini sobillati dagli studenti contestatori, Lulù perde il lavoro e viene abbandonato dalla compagna (Mariangela Melato). Ridotto alla disperazione verrà infine nuovamente assunto dall’azienda grazie alle mediazioni sindacali, tornando, obbediente, alla catena di montaggio.

Il film di Petri si presenta densissimo di tematiche sia socio-politiche che esistenziali. Il primo aspetto di fronte il quale ci pone il film è senza dubbio il rapporto fra uomo, macchina e produzione. L’operaio è sottoposto all’alienante e costante lavorazione in serie di prodotti di cui non conosce né la natura né la destinazione. La sua unica realtà è la macchina davanti a lui di cui diventa a tutti gli effetti una componente. Ogni mattina, dagli altoparlanti viene diffuso un messaggio di benvenuto per gli operai che rispecchia la sudditanza dell’uomo alla macchina («nel vostro interesse trattate la macchina che vi è stata affidata con amore […] la vostra salute dipende dal vostro rapporto con la macchina»). Lo stesso messaggio chiarisce immediatamente come questa subordinazione sia finalizzata alla produzione attraverso la gelida formula «non dimenticate che macchina più attenzione uguale produzione», che per i suoi toni “aritmetici” sembra riecheggiare l’orwelliano “2+2=5”.

I tratti distopici ricordano il film Metropolis di Fritz Lang. Il capolavoro di Lang pare essere richiamato dalla sequenza che ritrae l’ingresso degli operai in fabbrica e forse anche dal monologo iniziale di Lulù che paragona l’essere umano alla fabbrica, similmente al discorso di Menenio Agrippa, che paragona il corpo sociale al corpo umano, ripreso in Metropolis.

Il rapporto fra lavoratore e azienda, come accennato, è quasi totale subordinazione. L’azienda diventa un’entità politica superiore, inconoscibile e soprattutto incomprensibile se non in relazione al dogma economico della produttività. Il lavoratore può rapportarsi ad essa solo in termini di fedeltà e rendimento. Quanto ai rapporti fra i lavoratori, chi fra loro si adegua, con la prospettiva del guadagno, viene osteggiato come crumiro. La divisione fra i lavoratori e fra chi li rappresenta è uno degli elementi che contribuisce al senso di caos e straniamento del protagonista. Si aggiunge l’alienazione consumista. Una volta licenziato, pensando di vendere tutto Lulù realizza quanto lavoro ha sprecato per acquistare beni inutili.

Dall’altra parte vi sono le organizzazioni sindacali, sempre moderate e infine complici nel preservare lo stato di sfruttamento, agendo solo tramite deboli compromessi. E poi gli studenti estremisti che sobillano i lavoratori spingendosi anche all’insulto altezzoso contro chi non si mostra in linea con l’ideologia. Grazie alla loro retorica e superiorità culturale, questi coinvolgono Lulù, per poi abbandonarlo alle conseguenze della sua azione politica. D’altronde, come gli dice uno degli studenti, i contestatori sono pochi e deboli ed il suo licenziamento è solo una tragedia personale a fronte di un quadro generale più importante. Delle circostanze che, purtroppo per Lulù, non erano state chiarite prima.

Il film mostra una condizione esistenziale dell’individuo. Il caos dettato dal predominio di forze distanti e invisibili, dalle logiche di branco, dall’ossessione per l’ortodossia, insieme ad un lavoro alienante, portano Lulù a perdere la percezione di sé (persino il suo rapporto con la sessualità ne risente) e del suo ruolo nel mondo. Tutto ritorna meccanicamente e se qualcosa cambia lo fa in peggio, come sottolinea il finale. Nonostante tutto finisca bene, infatti, Lulù non sembra felice. Ormai ha preso coscienza della sua condizione. Di nuovo in fabbrica, racconta ai suoi colleghi un sogno, dove vede un paradiso per lui e gli altri operai. Una fuga onirica che riflette l’incubo, da cui l’abitudine, la solitudine e le necessità non gli permetteranno mai di liberarsi.

Andrea Faraci

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