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Istinti umani: Dog Days di David T. Little

In un futuro pre-apocalittico una giovane ragazza appartenente alla working-class statunitense assiste impotente alla degenerazione degli istinti di fratellanza della specie umana.

Fotografia di Hafidh Satyanto

David T. Little, americano, classe 1978, è una voce singolare fra le nuove generazioni di compositori. Il suo stile è allo stesso tempo anticonvenzionale e in linea con il profilico filone musicale del minimalismo d’oltreoceano. Ma la sua musica non si limita a sviluppare ulteriormente maniere di scrittura che hanno trovato in artisti come Philip Glass, Steve Reich e compagni la prima sfolgorante perorazione. Little trasferisce sulla partitura, con un felice sincretismo, diverse anime della musica americana. Oltre al minimalismo si trovano importanti influenze: rock, punk, funky, R&B, rap. Comune denominatore fra questi linguaggi è l’uso di un materiale armonico consonante; la ricerca deliberata di centri tonali; l’interesse per pattern e figure ritmiche definite.

Little si fa notare all’inizio del millennio soprattutto grazie a un lavoro per il teatro musicale, l’opera Dog Days (rappresentata per la prima volta nel 2012), su libretto di Royce Vavreck e ispirato a un racconto di Judy Budnitz. La trama dell’opera mette in scena la vicenda di una famiglia di lavoratori americani narrata attraverso il punto di vista di una ragazza tredicenne, Lisa. All’indomani di una guerra nucleare che ha stravolto il mondo, i protagonisti delle vicende si trovano a fronteggiare una realtà storica barbara e crudele, dove poco a poco le qualità umane delle persone vengono meno per lasciare spazio agli istinti più turpi e viscerali. Ben presto si scatenerà una lotta per la sopravvivenza dove il confine fra umano e animalesco si farà sempre più sottile fino a spezzarsi.

L’approccio alla forma dell’opera di Little è libero da schemi e innovativo. L’organico scelto non ha nulla a che fare con la magniloquente orchestra sinfonica che fa da sfondo alla maggior parte delle opere otto-novecentesche. Il compositore sceglie un piccolo ensemble, capace di risultare allo stesso tempo timbricamente scuro e cupo ma anche chiaro e scintillante.

Oltre ai cantanti la partitura prevede due percussionisti (impegnati perlopiù sulle tastiere: marimba, glocknespiel, vibrafono, xylofono), un inusuale quartetto d’archi (violino, viola, violoncello, contrabbasso) che suona amplificato, pianoforte, chitarra elettrica e clarinetto (che in alcuni punti passa al clarinetto basso). L’opera si distingue dunque per i le tinte fosche e taglienti dove l’arricchimento elettronico del suono gioca un ruolo fondamentale nell’esprimere la furia rabbiosa che si scatena sul palcoscenico. Anche l’uso delle voci si allontana dai manierismi del recitar cantando. Le linee melodiche sono chiare e precise.

La narrazione scava nella psicologia dei protagonisti, la musica, dal carattere rabbioso ed irrequieto, esibisce plasticamente le pulsioni istintuali che attanagliano i personaggi. Sotto il fraseggio musicale delle voci apparentemente cristallino l’ensemble ribolle con figurazioni veloci, continue permutazioni ritmiche che, quasi frustrate, si arrestano proprio sull’orlo dell’esplosione. La musica esteriorizza attraverso il suono il dissidio interiore fra apparenza ed essenza che segna la lotta per la sopravvivenza dell’essere umano nel suo stato più animalesco. Dietro all’apparente bontà dei gesti individuali si cela un groviglio inestricabile di pulsioni e istinti di auto-conservazione.

Il libretto dell’opera si interroga dunque sul confine fra ciò che è umano e ciò che non lo è. In situazioni al limite della sopravvivenza il predominio delle componenti razionali sembra compromesso da una cieca obbedienza alle dure leggi della sopravvivenza. Il cane (dog) del titolo, che alla fine dell’opera si materializzerà sulla scena, simboleggia proprio questo: la natura umana da scopo diventa strumento nell’affermazione della folle supremazia dell’istinto vitale.

Mattia Sonzogni

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