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«Non sai che città / che primavera ti preparo…»

Fotografia di Luca Torriani

In La sonnambula, poesia d’apertura della terza sezione degli Strumenti umani di Vittorio Sereni, il poeta intravede nel passaggio alla primavera la possibilità di una prospettiva, seppur incerta, di maggiore fiducia nel futuro. 

Diciotto anni di silenzio e riflessione separano Diario d’Algeria (1947) da Gli strumenti umani (Einaudi, 1965). Anni disincantati, di raccoglimento, nel tentativo di leggere con lucidità sofferta il passato e il tempo presente e, soprattutto, di comprendere come e se la poesia sia in grado di penetrare il reale.

La poesia, per Vittorio Sereni, è infatti possibile solo in un rapporto dinamico con la realtà e dal commercio con le cose del mondo derivano diverse conseguenze sul piano stilistico e formale: la “nausea metrica” cioè il rifiuto dei moduli metrici e retorici tradizionali, una sintassi irregolare, l’accumulazione di immagini, il ricorso sistematico all’iterazione, l’uso di un lessico quotidiano, l’introduzione di dialoghi e corsivi.

Il legame inscindibile poesia-vita fa sì che l’atto poetico nasca da singole e determinate occasioni, pertanto l’io lirico è rappresentabile solo all’interno di un rapporto col mondo, ma davanti a questo spicchio di realtà è nudo, privo di riferimenti stabili e condivisi. Da qui il suo disorientamento, la precarietà e spesso la rabbia. Uno smarrimento che si traduce anche nel drastico ridursi del “noi”, maggiormente presente invece nelle raccolte precedenti.
L’io, dunque, è posto nelle viscere del tumulto della storia, negli anni degli albori della società di massa e dell’industrializzazione. Gli strumenti umani sono gli espedienti cui si rifà per affrontare le sfide ignote del presente e per non soccombere davanti al peso emotivo e storico della memoria.

Delle cinque sezioni che compongono gli Strumenti, la terza, Appuntamento a ora insolita, «è dominata fin dal titolo dalla dimensione temporale, intesa in senso cronologico, stagionale, ma anche meteorologico. La poesia nasce in precise congiunture che si presentano come “appuntamenti”, decisi da altri, a cui il poeta assiste più che parteciparvi».[1] L’elemento della percezione del tempo è spesso funzionale all’emersione di una temporalità altra, quella del sogno. Infatti, la dimensione onirica connota gran parte di questa sezione e il componimento incipitario, La sonnambula, enuclea sin dal titolo i movimenti principali delle poesie che seguiranno.

La poesia si presenta sottoforma di un’unica strofa aperta e chiusa dalle virgolette a caporale, come se i versi fossero estrapolati da una conversazione. «Nel sonno dei corpi ti sento / avvicinarti al mio corpo»[2] e come in un sogno questa sensazione è preceduta dall’accavallarsi di immagini apparentemente sconnesse, ma legate tra di loro dalla mancanza di segni di interpunzione che segnino uno stacco di ritmo e di intenti e dalla fiducia che sembrano emanare: l’inverno, la stagione dura e vuota, la città spenta e grigia, stanno per chiudersi e far spazio alla primavera. L’anafora niente-niente e l’allitterazione della nasale contribuiscono all’insistenza che accompagna il desiderio di affidarsi a questa premonizione di speranza e rinascita. La poesia, dunque, si apre con queste due immagini costruite per parallelismo: «Niente come l’inverno / di mezza montagna / dice che l’inverno finirà / niente come il gallo alpestre / nella voragine del canto / distanzia la città […]».[3] Quindi all’inverno corrisponde la città, come se tra i due termini corresse un’affinità di gelo e immobilità. La battuta d’arresto di una stagione, cui è legato il sentimento arido della vita urbana, è celebrato con il luccichio che un nuovo tempo, annunciato dal canto del gallo alpestre che «propaga / di qui a laggiù un visibilio di valli»[4], pare portare con sé.

L’io, secondo una modalità d’espressione tipica degli Strumenti, si rivolge allocutivamente ad un tu, probabilmente “la sonnambula” del titolo. Le preannuncia che «ci aspetta una città con la sua primavera»[5]. Ora la città, attraversata dalla primavera, sembra recuperare una prospettiva di vivibilità cui s’accompagna una certa eccitazione, palpabile nei versi finali «Non sai che città, / che primavera ti preparo…».[6] Un’attesa intrigante marcata dai punti di sospensione vena, pertanto, le ultime parole della poesia, dove la primavera viene a configurarsi come un’irrinunciabile ipotesi di futuro.

Giulia Annecca


[1] Chiara Fenoglio, Prefazione in Vittorio Sereni, Gli strumenti umani, Milano, Il Saggiatore, 2018, p. 22
[2] Vittorio Sereni, Gli strumenti umani, Milano, Il Saggiatore, 2018, p. 87
[3] Ibid.
[4] Ibid.
[5] Ibid.
[6] Ibid.

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