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L’Eden perduto de Il sussurro del mondo di Richard Powers

Foto di Luca Torriani

Richard Powers, vincitore del premio Pulitzer 2019, nel primo capitolo del suo libro Il sussurro del mondo [1] racconta la fine di un Eden contemporaneo: le foreste di castagni del Nord America.

C’era un tempo in cui i castagni crescevano in abbondanza, donando i loro frutti come in un moderno paese di cuccagna. Fu poi un fungo a porre fine a questo Eden ottocentesco portando negli Stati Uniti una malattia che avrebbe decimato la popolazione arborea.

Il primo capitolo de Il sussurro del mondo, Nicholas Hoel, inizia raccontando proprio del «periodo delle castagne»: «La gente sta scagliando dei sassi contro i tronchi giganteschi. Le castagne cadono tutt’intorno a loro in un diluvio divino. Quella domenica accade in innumerevoli luoghi, dalla Georgia al Maine. Su a Concord, Thoreau vi prende parte» [2]. Così, agli occhi di Jørgen Hoel, norvegese appena sbarcato nel Nuovo Mondo, si presenta «il mitico banchetto gratuito d’America» [3]: castagne che cadono dal cielo e persone che corrono di qua e di là dopo aver arraffato il bottino, «riempiendo bicchieri, sacchi, e tasche di pantaloni di castagne liberate dai loro ricci avvolgenti» [4]. Da questo momento i castagni e il loro frutto portatore di vita accompagneranno la vita del giovane Jørgen, che, dopo la nascita del figlio, trova tre castagne raccolte quel fatidico giorno e decide di piantarle. Delle piante di cui segue la lenta crescita ne sopravvivrà solo una, unica superstite in realtà tra tutti i castagni d’America, unico ricordo di quella sagra dell’abbondanza che aveva accolto il norvegese.

Quest’albero diviene negli anni oggetto di un vero e proprio culto da parte della famiglia: a partire dal figlio di Jørgen, John Hoel, lo sviluppo quasi impercettibile dell’albero viene registrato attraverso una fotografia al mese; è sullo sfondo di queste fotografie e di questa vicenda che Powers racconta il cambiamento socio-economico degli Stati Uniti, dal cancro corticale del castagno all’industrializzazione. La storia di un albero si intreccia alla storia di una nazione, ma anche a quella di una famiglia, gli Hoel, di cui popolerà la vita e l’immaginario, anche dopo la fine della tradizione fotografica: il nonno di Nicholas Hoel, da cui il capitolo prende nome, decide infatti di interrompere l’ingrata opera; nonostante ciò il castagno trova il modo di riprodursi artisticamente popolando gli schizzi di Nicholas, studente di arte primitiva, e accompagna, nella realtà come nel pensiero, la famiglia Hoel, inscrivendo ogni momento, insignificante e transitorio, nei suoi anelli.

Se l’abbondanza arborea è qui solo rievocata, passaggio transitorio e perduto di cui resta, unico simbolo, il castagno degli Hoel, albero sentinella sperduto nelle pianure dell’Iowa, nel capitolo Douglas Pavlicek questa non si rivela altro che un trucco, una grandiosa scenografia che in realtà cela solo distruzione.

Lo zoppo reduce di guerra Pavlicek scopre casualmente l’inganno durante una sosta di viaggio. Al di là della prima linea di alberi della foresta scorge una luce, laddove dovrebbe esserci solo oscurità boschiva, e decide di andare in esplorazione: 

«Dopo la più corta delle escursioni, sbuca di nuovo in qualcosa che non si può neppure definire radura. Chiamiamola luna. Una zona desolata costellata di ceppi d’albero si propaga davanti a lui. Il suolo stilla scorie rossastre mescolate a segatura e fanghiglia. Ogni direzione fin dove riesce a vedere somiglia a un gigantesco uccello spennato. È come se quel luogo fosse stato colpito dai raggi della morte degli alieni, e il mondo stesse chiedendo il permesso di arrivare a una fine». [5]

È il macabro spettacolo del disboscamento industriale. Spinto dall’orrore Douglas arriva a farsi trasportare in aereo sopra al territorio per vedere la realtà dall’alto. Ovunque lo attende lo stesso spettacolo e un uguale cortina di fumo a nasconderlo: una sottile striscia di alberi porta avanti l’illusione di grandi foreste per i viaggiatori.

Da questo momento Pavlicek decide di dedicarsi a ripiantare la foresta. Non importa se chi gli affida il compito siano gli intermediari delle stesse industrie che abbattono gli alberi. A questo utopico lavoro di sopravvivenza e rigenerazione l’uomo si dedica giorno dopo giorno e «ogni stelo ricoperto di erbacce che infila nel terriccio è un trucco magico che richiede un’eternità» [6].

L’abbondanza scomparsa nel primo capitolo, l’abbondanza naturale qui solo illusoria rimane come meraviglioso e utopico sogno di rinascita. «Aspettate un attimo. Soltanto dieci o venti decadi. Un gioco da ragazzi, per voi, gente. Dovete solamente sopravvivere a noi. Così non rimarrà nessuno che potrà maltrattarvi» [7]: questo l’incoraggiamento mentale lanciato dal reduce ai suoi alberelli, questo l’auspicio di una nuova primavera.

Elena Sofia Ricci


[1] Richard Powers, Il sussurro del mondo, La Nave di Teseo, 2019, Milano (titolo originale The Overstory, W. W. Norton & Company, 2018).
[2] Ivi, p. 15.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 123.
[6] Ivi, p. 127.
[7] Ivi, p. 128.

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