Musica popolare indiana, free jazz, rock e pop: da queste disparate esperienze musicali scaturisce In C di Terry Riley, che scompiglia tutti i parametri della tradizione e delle avanguardie.
Gli anni ’60 del XX secolo in Europa e in America sono un periodo di frenetica sperimentazione musicale: si cercano le soluzioni più inusuali e curiose all’insegna dell’originalità e dell’estrema personalità di ogni scrittura compositiva.
All’interno della selva di correnti, strutturate in scuole con veri e propri pionieri, seguiti a loro volta da decine e decine di epigoni, alcune caratteristiche sembrano fare da minimo comune denominatore alla creazione sonora: l’imprescindibile rapporto con la tradizione colta, sia nel senso di rottura che di continuità; l’estremo controllo del compositore sul discorso musicale; il rigore e la coerenza del materiale musicale strutturato quasi in modo teleologico.
Queste profonde convinzioni vengono minate alla base da alcuni nuovi compositori, apparentemente più debitori verso il jazz e il rock che verso la tradizionale musica europea, che propongono alcune nuove e radicali idee estetiche, andando al di là delle ultime conquiste della neoavanguardia europea.
Già l’americano John Cage aveva realizzato una nuova prospettiva sonora rimanendo però legato in parte ai suoi colleghi europei. Una svolta più decisa avviene nel 1964 con la composizione In C di Terry Riley.
Riley negli anni sessanta è un musicista decisamente atipico, dopo un intenso studio accademico si dedica alle forme più inusuali per un compositore della sua matrice e il contatto con il mondo indiano diventa fondamentale. Frutto di questo crogiolo di esperienze musicali è un tipo di musica che successivamente verrà chiamata “minimalismo”.
Tuttavia Riley è lontano della ferrea logica che caratterizza la musica di autori come Philip Glass e Steve Reich. La sua immaginazione è subito catturata dal fascino della ripetizione musicale. Tramite la reiterazione di brevi elementi si sovrappongono via via diverse fasce sonore, questo è il fulcro della sua sperimentazione di cui In C rappresenta l’inizio dirompente.
In C (In Do) è un brano inusuale fin dal titolo. L’espressione indica la tonalità d’impianto del brano, in un periodo in cui la musica tonale era lo spauracchio della maggioranza dei compositori. Solitamente questa indicazione si accompagna al nome di una specifica forma (come Minuetto, Suite, Sonata, Concerto, Sinfonia) mentre qui essa non viene indicata ma lasciata nell’indeterminatezza. Il brano infatti non possiede una struttura definita ma lascia una grandissima libertà esecutiva.
La partitura riporta solo una cinquantina di frammenti musicali numerati nell’ordine in cui devono essere eseguiti. Quando questi frammenti devono essere suonati, da quale strumento e per quanto tempo sono aspetti lasciati alla volontà dell’esecutore. In questo modo l’esecuzione del brano diviene molto più simile a una jam session che non ha un’interpretazione musicale in senso stretto.
Riley si limita a dare alcune indicazioni generiche: il numero ideale di esecutori è circa 35, la durata ideale del brano si aggira sui tre quarti d’ora. L’unica parte obbligatoria è la continua ripetizione di un do da parte di uno strumento per tutta la durata della composizione, delineando una sorta di impulso ritmico attorno a cui ruota tutto l’universo sonoro del brano.
Questo fa sì che ogni esecuzione sia completamente diversa dalle precedenti. Non c’è più alcun rapporto feticistico con la partitura, nessuna pretesa di fedeltà. L’opera del compositore sembra dunque più quella di un indovino che delinea i tratti in cui quell’evento sonoro si realizzerà, lasciando però alle circostanze il compito di delinearlo. Le indicazioni del compositore sono vaghe e sfuggenti, solo la concretezza dell’esecuzione, mescolando imprevedibilità e aspettativa, può dare corpo al suo vaticinio.
Mattia Sonzogni