John Coltrane – uno dei maestri dello sperimentalismo più estremo del jazz degli anni ‘60 – ha saputo convogliare il suo travagliato percorso individuale in una musica originalissima, mai concepita come fine a se stessa ma come mezzo per fare del bene ed elevarsi in quanto uomo: A Love Supreme (1964) è l’esempio più lampante di questo suo risveglio spirituale e della sua personale lotta contro la dipendenza.
John Coltrane, sassofonista e compositore statunitense, è uno dei colossi della storia del jazz che ha saputo attraversare gli orizzonti già esplorati dai musicisti del suo tempo, spingendosi oltre il bebop, avventurandosi nel jazz modale e varcando coraggiosamente nuovi confini fino alle forme più estreme del free jazz, lanciato da Ornette Colemann [1].
La vita di Trane (Hamlet, 1926 – New York, 1967) è stata raccontata e ri-raccontata: dai primi incontri con i maestri del bebop (Dizzy Gillespie e Charlie Parker) all’essere stato membro dello storico quintetto del trombettista Miles Davis; dai proficui incontri con il pianista Thelonious Monk alle famose incisioni con il suo quartetto, fino a giungere alle sue sperimentazioni ultime, simbolo della maturità raggiunta circa le potenzialità lessicali del proprio strumento (tra tutti il sax tenore, poi anche soprano).
Ciò che però sembra maggiormente colpire di Trane – oltre alle sue capacità musicali indiscusse – è come e quanto la sua crescita umana abbia notevolmente influenzato quella artistica. Infatti, il suo personalissimo percorso individuale – che lo ha visto vittima dell’alcol e dell’eroina – è caratterizzato da una costante ricerca del meglio, del nuovo, del di più, dell’Assoluto. Una ricerca che culminerà in un avvicinamento a Dio – comunque lo si intenda – e che pervaderà i suoi album di una commovente e straziante spiritualità che non si arresterà fino alla sua morte.
L’album che più racchiude questo suo risveglio spirituale è senza dubbio A Love Supreme, una suite concepita in soli cinque giorni nell’autunno del ‘64, in seguito ad una dura disintossicazione nella sua casa a Dix Hills, un sobborgo della Grande Mela. Questo concept album, fatto di musica e poesia, vede protagonisti il batterista Elvin Jones, il pianista McCoy Tyner e Jimmy Garrison al contrabbasso. L’opera è stata quasi interamente registrata in un unico giorno all’interno dello studio dello stimato Van Gelder, con poche indicazioni e lasciando i musicisti liberi di addentrarsi nei meandri del suono-colore, aggrappati alla loro consolidata affinità.
I quattro movimenti in cui è suddivisa la suite rappresentano le tappe di un’ascensione spirituale: dalla presa di coscienza (Acknowledgement), si affronta il duro momento del proposito (Resolution) e della perseveranza (Persuance) fino allo step finale, quello della preghiera di ringraziamento (Psalm) per il raggiungimento di quella calma interiore che può scaturire, nel suo caso, solo dall’incontro con l’Assoluto.
Le prospettive di lettura di quest’opera illuminata sono molteplici, e non solo musicali: essa è piena di simbolismo e contaminazioni di varia natura: non mancano riferimenti alla trinità, alla spiritualità araba e africana, ai salmi di origine ebraica e alle ripetizioni ostinate tipiche delle pratiche meditative orientali.
Dal punto di vista strutturale l’album mantiene una forma circolare, garantita soprattutto dal primo e dall’ultimo movimento. La fanfara iniziale presente su Acknowledgement viene infatti ripresa su Psalm. Quest’ultimo movimento è forse quello che più racchiude la sua crescita personale. A tal proposito, all’interno della copertina dell’album, è presente una lettera per l’ascoltatore ed una poesia [2], scritte da Trane: il testo della preghiera non è mai recitato, ma un attento orecchio lo coglie tra le note del suo sax, che emette i suoni ‘sillabandone’ ogni parola. La suite termina con cascate di note, prima delle dissolvenze finali e del ritorno alla fanfara iniziale.
A Love Supreme non è solo un album. Esso è imperniato della sua poetica: un messaggio di fratellanza nei confronti della fragilità della condizione umana. Coltrane infatti non è stato né il primo né l’ultimo dei suoi contemporanei costretto ad affrontare la dipendenza [3] (si pensi a Charlie Parker, Bud Powell e molti altri, nelle cui biografie viene spesso messo in evidenza il nesso genio-sregolatezza). Certo è che, rispetto ad altri musicisti, egli ha trovato strade del tutto peculiari: non ultima la ricerca di un più intimo contatto con un’entità spirituale, vista dall’autore come un modo per uscire da uno stato di sofferenza e condividerlo con l’Altro attraverso la musica.
Eleonora Gioveni
[1] Il Jazz e il Suo Linguaggio, Maurizio Franco. Unicolpi, 2005
[2] https://www.johncoltrane.com/biography
[3] Psychedelic Popular Music. A History through Musical Topic Theory, William Echard. Indiana University Press, 2017