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L’incanto di Atlantide: una nuova vita

Il Vaso D’Oro venne pubblicato nel 1814 dall’autore tedesco E. T. A. Hoffmann. La fiaba è ancora oggi simbolo di magia, rinascita e alchimia.

Fotografia di Manuel Monfredini
Fotografia di Manuel Monfredini

Il vaso d’oro ha data coincidente con il periodo del Romanticismo e il suo protagonista è Anselmo, studente nonché classico personaggio looser, costantemente perseguitato dalla sfortuna. In quanto pervaso da un carattere romantico, all’interno della novella vive immerso nella cosiddetta Sehnsucht, provando una forte brama del volersi sentire parte integrante della comunità, pur non sentendosene degno.

Un fortuito incontro con l’archivista Lindhorst permette ad Anselmo di incontrare l’amore nella figlia del datore di lavoro e con esso un nuovo mondo: Atlantide. Così il giovane uomo si immerge a metà tra due fiumi: la realtà e la magia. La parallela esistenza del protagonista rappresenta un avvertimento fondamentale dell’autore: quello di non lasciarsi trasportare contemporaneamente da due universi, ma di racchiudere sé stessi solo in uno dei due. Difatti, la vera gabbia che costringe Anselmo la si trova quando è condannato a restare letteralmente intrappolato all’interno di una bottiglia: una metafora che Hoffmann utilizza per descrivere la condizione di chiusa costrizione vissuta dalla borghesia.

Quella che potrebbe definirsi come “doppia vita” nasce dalla domanda che il protagonista stesso si pone: a quale mondo appartiene? Anselmo viene dapprima introdotto come un ragazzo scapestrato, un giovane che nel mondo che il borghese valuta come reale, non riesce a mettere piede. L’unico cosmo nel quale inizialmente Anselmo riesce a trovare sé stesso è quello appartenente alla poesia: casa sua è un’altra cosa. Probabilmente già questa natura fuggente anticipa appieno la dualità universale che il protagonista andrà a vivere.

Tuttavia la negazione che Anselmo mostra nei confronti della realtà in cui si trovava prima immerso incontra una sorta di vera e propria contraddizione: lo scrittore, difatti, anela a diventare un lavoratore che possa totalmente appartenere alla borghesia.

Se da una parte lo scrittore spinge il lettore ad ancorare sé stesso alla “terraferma”, dall’altra vi è quasi un invito a lasciarsi trasportare dai propri sogni, aneliti e desideri. Tuttavia l’uomo non può “sdoppiarsi”, bensì trovare la propria dimensione e a quella, solo a quella, affidarsi. La favola si divide in dodici veglie, che come lancette di un orologio scandiscono il susseguirsi delle vicende e la vita stessa di Anselmo, dell’archivista (in forma reale una salamandra) Lindhorst e della singolare amante del protagonista, Serpentina, un vero e proprio serpente. Man mano che Anselmo si avvicina sempre di più ad Atlantide, il suo umore prima costretto e irrequieto migliora decisamente. Da qui nasce la domanda: quanto può giovare all’essere umano distaccarsi dalla propria realtà? Se da una parte il lettore incontra un Anselmo chiuso in sé stesso, piegato alla propria monotonia e destinato ad una vita cadenzata, dall’altra lo studente esprime la sua natura ed esplode in mille bagliori di luce che il mondo di fantasia gli permette di essere.

Che l’avventura sia un mero sogno o meno, non è dato saperlo ma l’esistenza non può essere scissa. Dunque il protagonista deve decidere se restare nel suo mondo di origine o a quello cui sente di appartenere. Così, come se avesse trovato la propria spiritualità, Anselmo decide di regalarsi una seconda possibilità nel mondo di Atlantide accanto alla sua neo sposa Serpentina. Il padre della ragazza, dopo aver distrutto il giardino in seguito ad uno scatto d’ira, è condannato a restare lontano dalla sua terra fintanto che tutte le sue figlie non avessero trovare l’amore. Pertanto, pur essendo convolata a nozze con il buon Anselmo, Serpentina rimane in speranzosa attesa del ricongiungimento con l’archivista.

Manuela Spinelli

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