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Fitzgerald e i luminosi anni ’20

Fotografia di Filippo Ilderico

Prima del successo de Il Grande Gastby, Fitzgerald con Belli e dannati (1922) svela già luci e tenebre della società tanto splendida quanto contraddittoria del boom economico americano.

L’America degli anni ’20 è un notturno luminoso: come astri che gareggiano in splendore, diletti e piaceri si rincorrono nell’attirare a sé le attenzioni dei cittadini piacevolmente travolti dal boom economico. Tra tutte le stelle, regnano sovrane allegria, bellezza e gioventù, fari instabili che dirigono il traffico di impulsi emotivi esaltati dalla ricchezza. Luci che ardono inquiete ed altre che già si consumano nell’effimero.

Anthony e Gloria, ubriachi delle più varie stelle, non trovano nel mondo che li circonda ragioni per frenare la caccia al prossimo piacere. Lui era «un inetto e vagamente un incapace, […] una di quelle personalità che, nonostante un gran parlare, non dicono niente, sembrava aver ereditato solo la lunga tradizione del fallimento umano» [1]. A lei più di tutto «mancava una teleologia pedante: un senso di ordine e di precisione, il senso della vita come di un patchwork le cui parti sono misteriosamente correlate» [2]. Ad unirli era «l’attrazione quasi prodigiosa dei loro cuori», una fame indomita per i piaceri che consumavano fuori e dentro la loro relazione. Sono sordi ai richiami della rigida moralità impersonata dal nonno di lui, il cui proibizionismo agisce da innesco per i loro vizi. Festini con gli amici seguono avventure fuori porta, interrotte da litigi e sfoghi passionali che evadono la noia del fermare la corsa ai divertimenti.

«Le cose belle», però, «raggiungono un apice e poi tramontano e svaniscono, esalando gli ultimi ricordi mentre decadono» [3]. La bellezza è una supernova: raggiunto il massimo dello splendore, si esaurisce e rivela la sua natura precaria. «Non c’è bellezza senza pathos e non c’è pathos senza la sensazione che tutto se ne va, uomini, libri, case… tutti destinati alla polvere, mortali…» [4]. I luccichii hanno i minuti contati, ma ciò, anziché scoraggiare gli amanti ad affidarsi a questi, li induce a sfruttarli fin quando la loro bellezza si mantiene fresca e la gioventù non sfiorisce. «Era su questi sogni, più che sulla soddisfazione per la loro vita sempre più irregolare e sempre più dissipata, che si basava la loro speranza» [5].

Con il tempo in Gloria era nato qualcosa di cui non aveva finora mai sentito il bisogno: «lo scheletro incompleto eppure inconfondibile, di ciò che abborriva da tempi immemori, una coscienza» [6]. Una luce mai avvertita prima getta sulle altre un’ombra e l’inquietudine toglie la spensieratezza ai giorni dei due amanti. La paura diventa l’unica emozione di cui sono capaci, ora nauseati e stanchi di vivere.

Neppure l’eredità del nonno che infine ottengono vale a colmare i vuoti di desideri mai sazi: la gioventù insieme alla bellezza inizia a sfumare e il divario tra aspettative e realtà si amplia sempre di più. Non resta più nulla per sognare: ora la notte è buia, ogni astro si spegne.

Alice Dusso


[1] F. S. Fitzgerald, Belli e Dannati, ed. originale 1922, ed. italiana Arnoldo Mondadori Editore 1987
[2] Ibidem
[3] Ibidem
[4] Ibidem
[5] Ibidem
[6] Ibidem

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