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L’INFARTO DI NINÌ BENGASA

Era maggio. O aprile inoltrato? Non ricordava mai la data precisa. Resta il fatto che il verde acido della collina gli trafiggeva la vista. Allora non poteva far altro che girare gli occhi verso la tempia destra di zio Nino Chiambretta dove svettava una saetta pulsante, il delta venoso in cui sfociava la sua rabbia. Ragliava instancabile ormai da ore nella Peugeot incendiata dal sole e il suo corpo lottava per distanziarsi dal sedile, per ergersi in tutta la sua sputacchiata senilità. Lui invece cercava di fondersi con esso, immaginando di liquefarsi in una pozza di sudore, pur di non sentire per l’ennesima volta la stessa solfa. “Qui giace Ninì Bengasa, squagliatosi per sfinimento all’ombra dell’ultimo sole” si era assopito un venditore e aveva una vena lungo il viso come una specie di Eliso deriso ucciso.
«E quindi adesso vanno a dire in giro che noi abbiamo aumentato il prezzo della verdura, noi! Capito? Noi! – e diceva quel “noi” stringendo la mano sinistra a becco per batterla pesantemente sul cuore – E invece Pellizza fa il cazzo che gli pare, tanto potrebbe anche ammazzare qualcuno ma tutti gli vorrebbero bene. Senti Ninì, non ti dispiacere se va così. Prima lo capisci meglio è: sei nato in questa famiglia, tra di noi l’affetto non ti mancherà mai, ma non cercarlo fuori. Qui non ci hanno mai voluto bene sai, davvero mai».
«Zio Ni’, perché non ti sei mai sposato?».
Perché poi gliel’avesse chiesto era un nodo che non aveva ancora sciolto.
«Lei, Ninì, ha problemi con la tempistica», gli avrebbe detto anni dopo il frate in confessione mentre lui scendendo con lo sguardo lungo la gamba del religioso dal tau appeso alla vita era approdato al piede imbiancato dal gelo e lo fissava ipnotizzato dal reticolo di pelle morta sul tallone. «Scusi, non ha freddo?».
La Peugeot aveva sbandato per un nanosecondo mentre zio Nino Chiambretta si era attaccato per la prima volta al sedile, senza più protrarsi sul volante, quasi risucchiato dal telo che ci aveva poggiato sopra, dove ristagnavano i suoi odori quando s’ammazzava per fare in giornata il giro dei paesi vicini tentando di vendere le ultime fragole. Lo aveva guardato strabuzzando gli occhi, la vena sulla tempia ingolfata, enorme. Per istinto Ninì si era portato le mani sulle palpebre, quasi dovesse scoppiargli in faccia. “È una noce che rompo in un pugno” pensò guardandola palpitare. E poi basta, più nulla. Solo rumore cieco.
«Ah Ninì, Ninì bello Ninì NinìNinì»lo aveva accolto la madre al risveglio in ospedale, circondato dal bianco e dai polpastrelli umidi della mamma che lo toccavano dappertutto come fosse cosa nuova.
«Che le avevo detto? No no, è forte. Controlliamo un attimo». Allora il medico lo aveva sovrastato con il camice mentre l’odore della sigaretta appena fumata lo sopraffaceva stordendolo. Non aveva i guanti. Così, inebriato dall’odore che sanciva il suo ritorno alla vita, aveva deciso che d’ora in poi avrebbe fumato. E zio Nino Chiambretta? Eh zio Nino sai, beh, zio Nino è un duro, un combattente nato, ce la farà, ama la vita, questo istinto è importante quando si è… Insomma, è vitale l’attaccamento alla vita, no? Banale vero, ma se non ci si aggrappa alla vita… D’altronde lo confermano i recenti studi scientifici e tu non ti devi preoccupare ché grazie a Dio vedi qui tu così… Su signora, via eccolo qui come nuovo e no, non lo vede? Lo guardi, lo guardi. Ma che fa? 

Per farla breve: zio Nino Chiambretta da venditore ambulante di frutta&verdura era diventato un vegetale dalle condizioni stabili ma precarie. Ha perso un secondo padre, mormoravano in paese, comunque sempre più dispiaciuti per lui che per la sorte toccata allo zio. Difficile assodare se fossea causa dei suoi capelli neri foltissimi che avevano dato linfa a un vero e proprio feticismo nel circondario, ossia affondare le mani nella sua chioma come se fosse una vasca d’acqua gelida dove immergere le mani per il troppo caldo. Forse per le ciglia incredibilmente lunghe che rendevano lo sguardo profondo o magari per il naso un po’ storto che conferiva al viso quell’aria da uomo vissuto e provato dalla vita, come se invece di avere quattordici anni ne avesse sessanta. In ogni caso il suo aspetto aveva sin dal principio seminato turbamento intorno a lui, perfino quando zampettava sull’acciottolato davanti casa sua e alle donne veniva la smania di spupazzarlo, per poi provare un inspiegabile senso di colpa. Non aveva preso moglie e non aveva avuto grandi passioni. Era questo l’omaggio a zio Ni’? Rimuginava ora cullato dalla sedia a dondolo nel salottino abbracciandosi forte come se stritolandosi potesse far spirare definitivamente l’ultima voluta di fumo dalle fitte che lo avevano colpito tutto il giorno. Un dolore sordo dal braccio saliva a paralizzarlo in una morsa di impotenza, a zittirgli il petto e la coscienza. E nella lucidità della sofferenza constatò che ancora una volta ciò che provava era dolore fisico, solo quello. Sempre meglio di niente, si disse mentre veniva colto dall’improvviso desiderio di vedersi morire. Allora si alzò a fatica e come una bestia ferita male si diresse in bagno dove c’era lo specchio più grande della casa. Con una mano si appoggiò al lavandino e distese il palmo dell’altra sul cuore tendendo le falangi nello sforzo isterico di lasciar finalmente irraggiare la pena sepolta nel torace dagli spiragli tra un dito e l’altro.

Racconto di Giulia Annecca

Edito dall’associazione culturale Lampioni Aerei


L’autrice

Giulia Annecca, classe 1996, viene dalla Basilicata e studia Lettere alla Statale di Milano. Nel frattempo fa cose, vede gente. Per lei la parola è in primis sonorità estetica

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