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IN APNEA

Monica afferra la giacca in pelle, lanciata la sera prima sulla sedia della camera. Se la mette dando le spalle allo specchio. Si dà un’occhiata veloce solo prima di uscire a passo deciso dalla stanza, sbuffando. Ripensa ancora alla sentenza pronunciata da Mattia: “Tu sei una ragazza normale anzi, il termine giusto è comune. Se ti dico sempre che mi ricordi molte persone è perché non hai niente di speciale. Sei una di quelle che quando passa per via non si notano, non ci si gira a guardarle un’ultima volta”. 
La vasca dei pesci è ancora sul tavolo della cucina, quasi del tutto asciutta. Gli aloni giallastri che al mattino ne coprivano i bordi, spariti. Con uno straccio asciuga le ultime gocce rimaste sulle pareti di plastica della boccia. I pesci rossi. A Monica sono sempre piaciuti, pensa di capirne gli incubi. Li ha sempre avuti, anche se solo uno per volta.  
Si trovano in un perpetuo stato di apnea rispetto al mondo esterno alla loro vasca e non sembrano badare al fatto che vivano in pochi centimetri quadrati: loro nuotano. 
Che forse non è poi così tanto vero che non se ne accorgono. Ma l’importante è che gli altri pensino che sia così. Stanno bene, loro, e chi li guarda può perdersi tra la sinuosità dei loro movimenti senza avere sensi di colpa. 
La boccia è piuttosto piccola, rettangolare, con qualche alberello di plastica verde sul fondo e nient’altro. 
Non l’ha mai confessato ma in realtà i suoi pesci non sono di nessuno. Insomma, non li ha mai comprati in alcun modo. Li prende e basta. 
Non sono molto longevi. Quando uno di loro decide di lasciarla, lei pulisce con cura la sua casa, che finisce col diventare anche la sua tomba. La sera stessa del decesso prende la sua bici e pedala. Passa davanti al pub che c’è di fronte a casa sua. Percorre tutto il ponte che unisce una sponda dell’Adda all’altra. Si dice che su questo ponte passò addirittura Napoleone. E poi su, si fa tutta la salita, chiamata amichevolmente lo Stradone. Una svolta a sinistra, poi una a destra ed è arrivata. Davanti alla chiesa delle Grazie c’è una fontana molto piccola e, nel mezzo, si trova un cumolo di cemento che dovrebbe ricordare una montagna, ormai ricoperto per intero da alghe. Dalla cima della montagna esce dell’acqua che va ad infrangersi sul fondo della piccola fontana.Qui si trovano sempre dei pesci rossi. Così Monica, che porta ogni volta un retino e la boccia, ne prende sempre uno, poi posa con cura la boccia nel cestino della bici e torna a casa.
La strada del ritorno, però, Monica l’allunga percorrendo le vie del centro della città. Una volta davanti al Duomo, nel bel mezzo della piazza, fuma una sigaretta in compagnia di quello che ora è il suo pesce rosso, e solo dopo torna a casa. 
E così, anche quella mattina, il suo pesce rosso, che era nero, si era fatto trovare immobile e galleggiante sul pelo dell’acqua.
Monica si prepara quindi per uscire, ora che è mezzanotte e in giro non ci sarà già più nessuno. Ha sempre attribuito la scarsa resistenza dei suoi pesci ai piccoli alberelli di plastica ancorati sul fondo della boccia. Nella dura battaglia per la sopravvivenza, le sostanze cancerogene hanno la meglio. 
Con la boccia sotto il braccio esce di casa. Appoggiata sul muro c’è la sua bici e nel cestino ci mette il piccolo acquario. Cavalcata la bici, pedala. 
Arrivata alla piccola fontana, sceglie quello che sarà il suo prossimo pesce da compagnia. Ne vede uno più grande rispetto agli altri, rosso e bianco. Il retino lo cattura e in pochi secondi si trova nella boccia di plastica. Un po’ d’acqua finisce sulle mani di Monica che si tingono di un rosso acceso. Le dita sono intorpidite, il pensiero del vento che le batte sul viso mentre pedala la convince a sedersi per un attimo vicino alla piccola fontana con le mani giunte tra le cosce. 
Acqua fredda che porta all’ipotermia. Mamma, tu cosa hai provato? Ma questo pensiero scivola, sparirà come l’alone d’acqua che ora ha Monica sui jeans, proprio lì dove si è asciugata le mani. 
Dopo pochi minuti è già davanti al Duomo, avvolta da una nuvola di fumo. Ancora pochi tiri e poi potrà tornare a casa e chiudere gli occhi su questa giornata. 
Uno scampanellio fa da sottofondo al rumore di una corsa affannosa. Un cane. Un cane che corre e sta andando verso di lei. Non è molto grande ma quando, con fare giocoso, le salta addosso, la fa indietreggiare di un passo. La stessa sorte spetta alla sua bici che si trova però in un equilibrio precario mantenuto dal cavalletto. In un attimo la boccia è a terra. Il coperchio si apre. Per il suo pesce è la fine. Monica rimane immobile come le tante colonne della piazza.
Un rumore di passi frettolosi preannunciano l’arrivo di una ragazza. Tiene in mano un guinzaglio con cui subito lega il cane. Ha le lacrime agli occhi mentre guarda prima Monica, poi la pozzanghera che si è creata ai suoi piedi. Con la bocca semiaperta cerca di immagazzinare più aria possibile ma non dice nulla. Monica le deve sorridere. Getta il mozzicone per terra, raccoglie la boccia e la bici e se ne torna a casa, accompagnata da uno “Scusami!” che si perde tra i portici della piazza. 
La mattina si alza sudata gettando le coperte da un lato. Si siede sul letto e si guarda allo specchio. Si passa una mano sulla fronte staccando i capelli appiccicati sul volto. Al diavolo i pesci rossi! Lei quella ragazza dai capelli azzurri la vuole trovare. 
E così torna, torna tutte le sere in quella piazza aspettando di farsi stravolgere ancora una volta i pensieri da quel piccolo cane nero e bianco e dalla sua fedelissima. Torna tutte le sere per una settimana ma quella ragazza non arriva mai. Lodi è una città abbastanza grande e spesso, cercando di rompere la monotonia dei paesi di provincia, qualcuno espatria. Non la rivedrà mai più. 
L’ottava sera porta con sé la boccia, ormai decisa a riprendere la sua attività notturna. Il suo invisibile atto di ribellione. 
Va in piazza. La ragazza ancora non si vede. Prende la bici, percorre corso Roma e arriva davanti alla sua piccola fontana. Ma non c’è più nulla. C’è l’acqua, delle alghe e qualche pezzo di plastica che galleggia ma dei pesci non c’è la minima traccia. Non è poi un problema tanto grave. In Duomo, dietro la piazza principale, ce n’è un’altra più appartata e circoscritta. È circondata anch’essa da portici. Andrà lì. 
Nel mezzo dello spiazzo c’è un vecchio pozzo che ora è stato trasformato in una fontana. Questo pozzo le è sempre piaciuto, forse per questo non viene spesso qui. Non vuole profanarlo con le sue strane abitudini. È rialzato rispetto al terreno coperto di pietre, circondato da due gradini che permettono, a chi li scala, di vedere all’interno del pozzo. E anche lì ci sono dei pesci rossi. 
Monica appoggia la bici su una colonna che si trova ai lati della piazzetta. Con un movimento maldestro fa rumore abbassando il cavalletto, un rumore sufficiente a far girare la ragazza che sta guardando l’acqua del pozzo. Solo dopo qualche secondo Monica si accorge che ai suoi piedi c’è lo stesso cane di qualche sera prima, anche se questa volta sembra più calmo. L’accoglie scodinzolando e abbassando le orecchie. Monica raggiunge la ragazza. 
“Non ci ho mai pensato ma i pesci si muovono in modo strano, quasi innaturale per noi. Il loro corpo ondeggia lateralmente. Noi non ce la faremmo mai. Dovremmo fare piuttosto come i delfini, muoverci dal basso verso l’alto.” 
Monica ha un sorriso sul volto ma non lo sa. 
“Tu sei la ragazza dell’altra sera. Scusami per il tuo pesce. Non sono riuscita a parlarti. È che ti avevo riconosciuta. Tua madre… penso mi abbia fatto vedere una tua foto quando era in cura nell’ospedale dove svolgo il mio tirocinio. Monica, giusto? Mi ricordo esattamente i tuoi capelli. Io con lei ci continuo a parlare sai?”
Monica risponde alzando vistosamente una spalla. Si tasta poi le tasche del giubbotto in pelle in cerca dell’accendino e delle sigarette. 
“Alla fine tua mamma ti ha dato la lettera?”
“Io… Boh, non mi ha detto niente. Ha riavuto la lettera che le hanno sequestrato i carabinieri il giorno dell’incidente? La famosa lettera d’addio?” 
“No, quella ormai dalla per persa. Tua mamma soffre molto Monica… È divorata dai sensi di colpa nei tuoi confronti. Quando l’hanno ritrovata sulle rive della Muzza tutti hanno dato la colpa a te. Penso che sia per questo che ha scelto di scrivere una seconda lettera, una lettera di ritorno questa volta.”
“Ok, ascolta… Io la vedo ogni settimana e va… Io non voglio tirare fuori ancora questa cosa. Voleva darmi la lettera? Non l’ha fatto e, credimi, è molto meglio così. Non ne parliamo da quando ha tentato di… Sì, insomma, da quando è uscita dall’ospedale. Non tirare fuori ancora questa storia. Ora scusami ma vado che è tardi.”   
Sono passati tre giorni e Claudia, la ragazza dai capelli azzurri, non è più ricomparsa.  
Dalla pila dei giornali lasciati sul tavolo, svetta una lettera che suo padre le aveva preparato vedendo che il destinatario era proprio lei. Con passo pesante si dirige verso il tavolo. Afferra la busta stropicciandone un bordo. Va nella sua camera. Tira fuori dalla tasca del giubbotto in pelle l’accendino e dà fuoco a un lato della carta. Quando il calore diventa quasi insopportabile, getta la busta nella boccia che ha sulla scrivania. È piena d’acqua ma vuota. Va in bagno a sciacquarsi la faccia, la strofina con l’asciugamano ruvido. Indossa poi il giubbotto e esce dalla porta di casa sua, la chiude. Fa un profondo respiro. Le spalle si abbassano rilassate. Prende la bici appoggiata al muro di casa, vicino alla porta, e pedala. Sua mamma la sta già aspettando da un quarto d’ora.

Racconto di Chiara Marazzina

Edito dall’associazione Lampioni Aerei
Editors: Myriam Nicoli ed Elena Sofia Ricci


L’autrice

Chiara Marazzina nasce il 13 agosto 1997. Frequenta la facoltà di Lettere Moderne all’Università degli Studi di Milano e vive in un comune di provincia dove fa la cameriera. Delle volte fugge dalla noia con un qualsiasi mezzo di trasporto, altre volte lo fa con una chitarra e un foglio digitale.

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