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ALBA

Tutto ciò che le rimaneva era la preghiera. Sedeva su una sedia di vimini in un angolo della stanza, ingobbita dagli anni. Le dita rugose scorrevano i grani del rosario. Era uno dei suoi rituali giornalieri, usati per riempire il tempo e darsi un po’ di forza.

Gli ottant’anni l’avevano colta in uno stato di scoramento. Era il marito la sua forza, un tempo.Come due vecchi animali, passavano il tempo a urlarsi da una parte all’altra della casa. Data la sordità della vecchiaia il metodo spesso non andava a buon fine e uno dei due, di solito lei, doveva avvicinarsi per sentire cosa volesse l’altro. 
Ogni tanto tendeva ancora l’orecchio in attesa di sentire il marito dalla stanza accanto. Solo dopo un po’ si accorgeva dell’assurdità di quel gesto e tornava alle sue occupazioni, con un senso di mancanza.
Le mancava terribilmente averlo accanto. Ricordava tra i sospiri i battibecchi sul cibo, sulle medicine, sulla casa; discussioni ripetute mille e più volte tra persone che vivono insieme da anni, e che finiscono con un gesto di resa e una piccola smorfia ai lati delle labbra.

La sua morte l’aveva colta impreparata, lui che diceva sempre: “Almeno ai cent’anni ci arrivo di sicuro”. D’un tratto si era ritrovata da sola in quella casa in cui la presenza di lui era scontata, quasi intrinseca. Mai quel luogo le era sembrato così grande e vuoto.
E ora non poteva far altro che tenere occupata la mente. 
Un buon metodo erano le faccende di casa. Vi si dedicava ogni giorno pulendo e lucidando oggetti già splendenti. Dopo un po’ però mobili e pavimenti finivano e di colpo la casa si ridimensionava. Allora si asciugava il sudore dalla fronte con il fazzoletto ricamato e cominciava a guardarsi attorno smarrita, ansiosa di trovare al più presto qualcosa da fare.

I suoi occhi si erano dapprima soffermati sulla grande libreria che correva lungo una parete del salotto. Dopo un rapido tentativo, però, aveva dovuto accettare che la sua vista, ormai troppo debole e affaticata, non le permetteva di godersi il senso della lettura.

Allora si era concentrata sul vecchio televisore nell’angolo. Sedendosi sulla punta del divano, quasi avesse paura di recare disturbo, aveva premuto un tasto qualunque del telecomando. Si era presto accorta, però, che la maggior parte dei programmi le ricordavano il marito. Si accoccolò sulla poltrona di lui, con il fazzoletto di stoffa stropicciato tra le mani; calde lacrime le rigavano le guance mentre singhiozzava rivolta al bagliore ormai sfocato dello schermo.
Gli unici programmi che riusciva a guardare erano quelli religiosi. Erano i soli che non le ricordassero quando li vedevano insieme. O quando era lui a farlo e lei, con lo sguardo ricolmo d’affetto, gli si affaccendava attorno. Così passava le giornate pregando e pulendo, con il sottofondo incessante di messe e rosari in tv.

Un lieve conforto le giungeva solo dalle visite dei figli. Tuttavia, in quelle occasioni, invece di godersi quel tempo assieme, non riusciva a fare a meno di rinfacciare loro il fatto che l’andassero a trovare troppo raramente. 
Dopo che ognuno di loro era tornato a casa con moglie e figli si pentiva, sola in quella casa silenziosa, delle parole risentite che inevitabilmente li allontanavano. 
Non ce l’aveva con loro in realtà. Questa consapevolezza la faceva sentire ulteriormente in colpa. Nei loro visi, negli sguardi, in ogni gesto rivedeva il marito e questo le stringeva il cuore. Era a lui che in realtà rivolgeva quei rimproveri per averla lasciata sola.

L’unica persona che vedeva era Ines, una vicina di casa poco più giovane di lei. Era quest’ultima a tenerla aggiornata sulle novità del loro piccolo mondo condominiale. Insieme spettegolavano su persone che ormai vedeva solo nei propri ricordi e chiacchieravano dei mariti come se fossero ancora presenti.

Fu mentre si trovava a casa della vicina che il figlio più giovane venne a farle visita. Aveva suonato inutilmente per qualche minuto alla porta della casa della madre. Poi, ormai certo che non fosse lì, era andato a cercarla nell’unico altro posto in cui sapeva di poterla trovare.
Ines gli aveva aperto la porta con il solito sorriso bonario e lo aveva condotto in salotto, dove stava prendendo un tè con la madre. Si sedettero e le due donne cominciarono a ricordare i tempi in cui lui era ancora bambino, cosa che facevano spesso quando si trovavano insieme e che ogni volta lo imbarazzava. Non vedeva di buon occhio quel loro modo di vivere costantemente nel passato. Lo trovava malsano.
Aspettò comunque pazientemente che finissero e che la madre si stancasse di spettegolare con l’amica. Quando finalmente si alzò per tornare con passo malfermo alla propria porta, la seguì in silenzio.
– Te ne sei stato tutto il tempo zitto e fermo come uno stoccafisso! -, esordì la donna appena ebbe girato un paio di volte il chiavistello.
– Scusa, ma’… -. Rimase fermo, fissando un po’ lei, un po’ il vuoto.
– Scusa ma’, sempre scuse! Perché per una volta tanto non mi dici veramente quello che pensi?
La guardò con aria offesa e sospirò tra l’afflitto e l’arreso. 
– Lo sai quello che penso ma’, il problema è che non mi ascolti.
Anche lei lo guardò, dritto negli occhi, e al breve impeto di rabbia si sostituì solo una profonda stanchezza. Si sedette, la schiena ingobbita. – La fai facile tu. “Dovresti uscire ma’ ”, dici. – Alzò di nuovo lo sguardo per un attimo. – Tu non sai, figlio mio.

Non aggiunse altro. Carlo rimase immobile, non sapendo cosa dire. Non capiva le parole della madre. Non gli sembrava nulla di difficile, ma c’era qualcosa nel tono di lei che non gli consentiva di trovare la forza, o il coraggio per ribattere.
Rimase ancora un po’ lì, parlando del nulla; poi se ne andò, come al solito.
Rimasta sola, la donna continuò a lungo a fissare la porta dalla sedia della cucina. Spesso aveva desiderato varcare quella soglia per un tragitto più lungo di quello verso l’appartamento della vicina. Ogni volta però, ferma in piedi appena entro il limite, pensava a quante cose fuori le avrebbero ricordato il marito scomparso ed era presa come da una vertigine. Richiudeva quindi veloce la porta e tornava alle proprie faccende, facendo finta che nulla fosse successo.
Anche questa volta, dopo aver guardato a lungo l’ingresso, tentò di accondiscendere al desiderio del figlio. Invano.

Si accoccolò sulla poltrona, lasciandosi sprofondare. Pensò alla sua vita proiettata nell’allora e alla vita di allora, riflessa solo in se stessa.
Il cuore le batteva forte. Si strinse il petto con la mano destra. Si alzò e si diresse verso la soglia. La varcò, finalmente. Scese in fretta le scale e si trovò nel parco sotto casa.
Mai il mondo le si era mostrato così. Le foglie, sospinte dal vento danzavano nell’aria, disegnando degli strani fiori, fioriti sotto un cielo più bello.
Si sbagliava. Non era vero che tutto le ricordava lui. Ogni cosa era lui.

Racconto di Elena Sofia Riccii

Edito dall’associazione Lampioni Aerei
Editors: Filippo Ilderico e Sofia Masullo


L’autrice:

Elena Sofia Ricci nasce a Milano nel 1997. Attualmente frequenta l’Università degli Studi di Milano, fa parte dell’associazione culturale Lampioni Aerei e ha fondato Il Timoniere.

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