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Gli artisti maledetti del Cinquecento

Fotografia di Filippo Ilderico

Nel ‘500 tutte le speranze che avevano sostenuto il Rinascimento si mostrano d’improvviso come illusioni. Frutto di ciò è l’arte tormentata dei manieristi, definiti da Giuliano Briganti i primi artisti maledetti.

«Sono note le loro stranezze e bizzarrie […] che, a cominciare da loro, hanno contribuito a conferire alla figura dell’artista quel carattere di individuo separato dal resto della società». [1]

In quest’epoca in evoluzione i manieristi esprimono, attraverso la loro arte, ansie, angosce, tormenti di un momento di transizione, di una crisi stilistica per cui i vecchi modelli non vanno più bene: il paradiso rinascimentale è entrato in crisi. Il substrato psicologico, proprio soprattutto del primo manierismo pittorico, quello fiorentino, portò a opere quali quelle di Iacopo Carrucci, detto il Pontormo, e Rosso Fiorentino, caratterizzate da grande libertà espressiva. Tra i tratti distintivi di queste opere l’acuta dissonanza di colori, che avrà esiti diversi nei due artisti. È il Briganti a descrivere tali colori con parole quasi liriche.

«Se prendete dei papaveri, lasciati nella luce del sole d’un pomeriggio melanconico, […] se li prendete e li pestate: ne viene fuori un succo che si secca subito, annacquatelo un po’, su una tela bianca di bucato, e dite a un bambino di passare un dito umido su quel liquido: al centro della ditata verrà fuori un rosso pallido pallido, quasi rosa, ma splendido per il candore di bucato che cià sotto; ma agli orli della ditata si raccoglierà un filo rosso violento e prezioso, appena appena smarrito; si asciugherà subito, diventerà opaco, come sopra una mano di calce. Ma proprio in quello smarrirsi cartaceo, conserverà, morto, il suo vivo rossore.» [2]

La figura del Pontormo, in particolare, mostra il travaglio della ricerca artistica: è una figura scontrosa, incline alla misantropia che «guastando e rifacendo oggi quello che aveva fatto ieri, si travagliava di maniera il cervello che era una compassione». [3] La sua ricerca artistica approda a un livello tale di bizzarria che le ultime opere non vengono apprezzate all’epoca, criticate anzi dal pubblico disorientato.

Il Rosso e il Pontormo diverranno nel ‘900 il segno della crisi stilistica di Pier Paolo Pasolini. Ne La ricotta il regista ricrea infatti in due tableux vivants due opere degli artisti: tracollati i suoi modi espressivi abituali Pasolini cerca di fondare un nuovo stile mescolando i manieristi a Masaccio, la rappresentazione a colori dei due tableaux, cari al regista, a quella in bianco e nero del mondo proletario, simboleggiato dal personaggio di Stracci. Quattrocento anni dopo i manieristi tornano, dunque, finalmente amati «da tutti coloro che hanno vissuto il ‘900 con inquietudine e disagio». [4]

Elena Sofia Ricci


[1] La maniera italiana, Giuliano Briganti, op. cit. in Pier Paolo Pasolini. La ricotta, Tomaso Subini, Torino, Lindau, 2009, p. 151
[2] Ibidem
[3] Storia dell’arte, L. Castelfranchi Vegas, E. Cerchiari Necchi, Signorelli Milano, 1973, p. 421
[4]Pier Paolo Pasolini. La ricotta, Tomaso Subini, Torino, Lindau, 2009, p. 151

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