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Taro: il paradiso perduto del fotocronista Robert Capa in una canzone degli alt-J

Fotografia di Filippo Ilderico

La storia di Taro, la reporter ventiseienne, e del suo amato compagno Capa, riemerge dalle ceneri delle guerre del secolo scorso in un brano degli alt-J, con un’affascinante leggerezza che cattura per trasportare nel passato, nel mondo dei soldati immortalato dai due amanti protagonisti.

Gli alt-J (ma anche Δ, il simbolo sta per “cambiamento, variazione, evoluzione”) sono un gruppo indie rock elettronico attivo dal 2007. Tre ragazzi inglesi come tanti che, negli anni del college, decidono di unirsi per tentare la fortuna in un periodo in cui la loro vena creativa viene ascoltata. La loro è una musica suggestiva, a tratti psichedelica, un sound indie sottile e complesso al tempo stesso. In alcuni brani la geometria delle note palpita al punto da evocare atmosfere intense, ma suggeriscono anche flussi emotivi più quieti, come nell’ultimo album RELAXER pubblicato nel 2017. Si affidano ai suoni che un dato momento ispira e riescono a cogliere una sensazione precisa come un filo da intrecciare a tanti altri per tessere perfettamente il pezzo.

An awesome wave, uscito nel 2012, è l’album d’esordio ed è il più venduto del gruppo finora. Ogni singola traccia riporta il tocco surreale e allucinogeno della loro musica, ma soprattutto l’ambiguità misteriosa ma affascinante. Raccontare storie non fa per loro, non è nel loro stile, pur imbevendo i testi di citazioni artistiche di ogni tipo. Ma il paradiso perduto di cui si canta in Taro commuove anche un gruppo non ordinario come loro. È la canzone degli alt-J che fa più contrastocon gli altri brani dell’album, proprio per la storia in cui lascia sprofondare l’ascoltatore.

Parigi, 1934. Endre Friedmann, fotografo ungherese ebreo, conosce Gerta Pohorylle, di cui si innamora perdutamente. Lui le insegna tutto ciò che sa della fotografia. Da quel momento non si lasciano più: fondono i loro lavori sotto una sola etichetta, l’identità fittizia di un fotografo americano di nome Robert Capa. Insieme, documentano i momenti più strazianti della guerra civile spagnola nel 1936. Saltano giù dalle jeep e dai carri armati per fotografare i soldati e i corpi martoriati di quelli che lo erano stati. Registrano ogni avvenimento con la passione che il loro ruolo richiede. Una passione per cui rischiare la vita.

Difatti, la morte che li circonda finisce inevitabilmente per toccarli. La fotografa, che aveva preso lo pseudonimo di Gerda Taro, a soli ventisei anni, viene investita da un carro armato durante un servizio in Spagna nel 1937. Muore lottando disperatamente per la vita, poche ore dopo l’incidente.

E Capa? Endre, che prende il nome d’arte stesso di Robert Capa, è il protagonista delle lyrics di Taro. Dopo la morte della compagna, il reporter continua a tracciare i passi della guerra foto dopo foto. To photo, to record meat lumps and war [1]. Ma la morte non ha più lo stesso odore, un odore caldo di sangue che prima nutriva il coraggio con cui combattere la guerra a modo suo, scattando foto nelle lotte più violente come sparando lui stesso a un nemico. La morte ormai è così invitante per il fotocronista da attirarlo nelle missioni più pericolose in Medio Oriente per la nuova agenzia fotografica Magnum, fino al punto da saltare, volontariamente o no, su una mina, very yellow white flash [2], nascosta sotto la sabbia del deserto.

Man mano che si scende nel cuore del brano l’ascoltatore viene immerso in un’atmosfera nostalgica. La componente strumentale trasmette questa sensazione anche se non si intende subito il significato della storia di Capa e Taro. La canzone è drammatica,: Le photographe est mort [3] canta la voce, ma il ritornello trascinante ha armonie riconoscibilmente orientali che infondono un’energia piacevole attraverso i rimandi al mondo in cui si era gettato Capa, cercando di dare un senso alla vita senza Taro attraverso i reportage.

Il video musicale, però, è tutt’altro che drammatico e nostalgico. Viene mostrata la quotidianità più serena nell’Indocina della canzone, senza alcun rimando al mondo delle guerre in cui erano immersi Taro e Capa: bambini che corrono e giocano, pescatori meditabondi in riva al fiume, anziani sciamani etnici dall’aria sapiente. Sono immagini tratte dal film del 1988 Powaqqatsi: Life in Transformation del regista Godfrey Reggio.

La cupa realtà della storia di Taro e Capa è in contrasto con la leggerezza della melodia e con il video. Le immagini spontanee di un popolo dell’Indocina povero ma niente affatto afflitto dal terrore, intrise del sound arabeggiante, esplicano quale fosse il paradiso perduto fotografato da Taro e Capa, un mondo che apparteneva solo a loro, in cui si sono ricongiunti.

Teresa David


[1] Taro, alt-J.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.

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