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Muta è l’acqua: l’umanità strilla nella sinfonia della natura

Fotografia di Manuel Monfredini

Primo Levi in Ottima è l’acqua (Vizio di forma, 1971) ritrae una prospettiva apocalittica di un creato soffocato dalla superbia dell’impronta umana sull’ecosistema.

A tentare di descriverlo con il tatto, il canto della terra oggi risulterebbe denso e pesante, una coltre spessa, asfissiante e asfissiata. Non respira più un’aria fine, si muove a fatica nelle sue variazioni di tono. È simile, infatti, all’acqua che non scorre, ma quasi solca il letto del Po nel racconto di Primo Levi, quella che ferisce con gocce di pioggia sferzanti il terreno che dovrebbe dissetare. Si tratta di una viscosità del liquido mai registrata prima d’ora, che interdice Boero, topo di laboratorio protagonista della narrazione: “1,300 centipoise a 20°C, il trenta per cento di più del valore normale” [1]. Un dato che agli inesperti non dice molto, quanto invece sconvolge vederne le conseguenze in un’Amazzonia ridotta a palude, negli alberi d’alto fusto morti perché l’acqua viscosa non riesce ad ascendere ai capillari più alti, in un cuore che non riesce più a pompare il sangue denso.

Levi, nella raccolta Vizio di forma, tratteggia scenari apocalittici circa le conseguenze del progresso tecnologico a spese dell’ecosistema. Campanelli d’allarme premonitori, considerato l’inquietante anticipo – pubblica nel 1971 – con cui presenta un futuro la cui urgenza ci tormenta oggi. Si altera l’acqua e a cambiare non è solo una nota, ma la chiave che detta l’ordine sull’intero pentagramma del creato. Gli accordi stridono, i suoni si confondono mentre la sinfonia fallisce ogni tentativo di tornare armonia. Il canto ora è sofferenza; ma non grida, quanto piuttosto soffoca in silenzio.

In questa quiete è da ricercare il linguaggio di una Terra che è prima di tutto un mistero, che non chiede di essere compreso per essere vissuto. Creatura che risponde ad un genio che non è umano, la Terra è un tutto, che alla nostra misera parte non è dato conoscere. L’arroganza dell’uomo, però, non tollera arrendersi a quest’impotenza: come lo convince a credersi capace di scoprirne i meccanismi, così lo porta ad attribuirsi tutte le responsabilità per un suo “funzionamento incorretto”, che sia questo un’asincronia nei ritmi stagionali o una malformazione nella specie.

L’errore in questa valutazione sta, di fatto, al principio: non esiste in natura “funzionamento corretto” o equilibrio che si mantenga stabile. I cataclismi ambientali e gli sconvolgimenti d’ordine si succedono da molto prima che l’uomo fosse in grado di lasciare un’orma significativa sul suo pianeta e la stessa etichetta affibbiata loro di “disarmonie” non fa che seguire un sistema di riferimento logico-artificiale poveramente umano.

Il primo segnale d’allarme dato da Boero deriva proprio da un campione d’acqua che sfuggiva dagli standard di “normalità”, quando, del resto, la stessa natura non è mai entrata veramente in questi schemi, rimanendo sempre al di là delle capacità umane di inscatolarla. Ad imbottigliare esemplari e dissezionare tessuti, si casca facilmente nell’illusione di poter porre confini a ciò che sorpassa di gran lunga i limiti umani. Non è nella confusione di alambicchi e discussioni scientifiche che si chiarisce il linguaggio del canto che si indaga, bensì nel saper ascoltare una voce che, anche quando sommessa, non viene meno alla potenza di cui è ambasciatrice.

Levi, del resto, non ha perso la speranza: ritiene, anzi, che ci sia ancora la possibilità per l’uomo di dirottare l’andamento del progresso dalla prospettiva di un completo sfacelo a quella di uno sviluppo in sincronia con il respiro del pianeta. La sinfonia a cui ci è richiesto di armonizzarci, però, non ci vede direttori d’orchestra ma umili flauti o piccoli clarinetti a cui è dato rispettare ritmi e intensità delle altre voci del coro.

Nella finzione dell’autore, le acque del Sangone prima e quelle degli oceani poi avanzano a fatica perché portano il peso di un intervento dell’uomo a tal punto invasivo da arrogarsi il potere di cambiare il timbro della natura: “lo scroscio non sembrava quello, era più sordo, come attutito” [2]. Non spetta alla specie umana stendere il pentagramma di una melodia che a malapena è capace di ascoltare.

Alice Dusso


[1] P. Levi, Ottima è l’acqua, Vizio di forma (Einaudi, 1971).
[2] Ibidem.

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