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Virginia Woolf e la fatalità di chi scrive del solo suo genere

Fotografia di Filippo Ilderico
Fotografia di Filippo Ilderico

Dove alcuni vedono solo due eserciti in guerra, Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé (1929)  scorge la possibilità di un’armonia tra i due sessi che giunge a compimento nella mente androgina, dove la componente femminile si bilancia con quella maschile.

Esiste un enorme paradosso nella figura della donna, due prospettive che contrastano sensibilmente. La letteratura d’ogni epoca la vuole personaggio “della massima importanza, multiforme, eroica e meschina, splendida e sordida, infinitamente bella ed estremamente ripugnante, grande come l’uomo, per alcuni persino più grande»; la realtà la sorprende perennemente soggetta ad un’autorità, quella dei genitori prima, quella del marito impostale poi, «rinchiusa, percossa e maltrattata». Ecco «l’animale più discusso dell’universo»: “estremamente importante nell’immaginario, totalmente insignificante nella realtà».

È Virginia Woolf a parlare, anzi, è Mary Beton, Mary Seton o Mary Carmaichael, qualsiasi nome con cui si voglia chiamare la donna che ha vissuto nel silenzio per secoli e che ora non vuole altro che sottoporci la sua opinione, nient’altro che la sua opinione, poiché è da essa che nasce il dubbio, la discussione. Si rivoluziona così il significato di lezione – non può essere, infatti, esposizione di una verità, qualora ne esistesse una unica – nella cornice di due conferenze tenute nel 1928 a Newham e Girton, college femminili dell’Università di Cambridge, da cui viene tratto il saggio pubblicato un anno dopo. Invitata a dibattere circa l’argomento Donne e letteratura, l’autrice inevitabilmente inciampa sul forte controsenso della donna che vive come prezioso prodigio nel romanzo, ma che nella realtà ha raramente la possibilità di scriverne uno: «lo spirito della vita e della bellezza in una cucina a tagliuzzare grasso».

Eppure «un genio di qualche sorta dev’essere esistito tra le donne»: la storia ci tramanda i grandi nomi di Aphra Behn, Jane Austen, delle sorelle Bronte di George Eliot. Virginia accusa le ultime di aver lasciato che la rabbia, dovuta all’esclusione dal mondo attivo, trasparisse dalla loro letteratura. Facile rischio quello di sfogare la repressione in una dichiarazione di guerra all’altro sesso: la «vita per entrambi i sessi è ardua, difficile, una lotta incessante».

Se si considerano i secoli di saggi dai titoli come L’inferiorità mentale, morale e fisica del sesso femminile, allora l’astio femminile trova ragione in risposta alla rabbia dei professori che firmavano tali trattazioni. Quando tali dottori indugiavano a sottolineare con particolare enfasi l’inferiorità delle donne, erano piuttosto preoccupati di affermare la loro superiorità: non c’è metodo più immediato per acquisire fiducia in se stessi che denigrare gli altri. «Per secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi dal potere magico e delizioso di riflettere raddoppiata la figura dell’uomo».

Non vi è, dunque, mai stata alcuna ragione di dotare di mezzi economici ed educativi il genere femminile: anche il migliore dei talenti necessita di un’educazione che corregga il tiro del suo estro per fiorire e produrre capolavori, così come un arbusto cresce vigoroso solo se potato a dovere. Da qui l’imperativo che segna la fama di questo saggio: «se ha intenzione di scrivere romanzi, una donna deve possedere denaro e una stanza tutta per sé». Stando alle stesse parole di sir Arthur Quiller-Couch che la Woolf riporta, la scrittrice non si allontana dalla realtà: «la libertà intellettuale dipende da cose materiali. La poesia dipende dalla libertà intellettuale. E le donne sono sempre state povere, non per soli duecento anni, ma dall’inizio dei tempi».

Ora però la civiltà si muove in una direzione diversa, e anche se a fatica, alcune porte si aprono per il genere femminile e occorre che le coscienze si sveglino. È forte e chiara la chiamata della Woolf al cambiamento della figura della donna nella perorazione: «ragazze […] voi siete, secondo me, vergognosamente ignoranti. Non avete mai fatto una scoperta della minima importanza, non avete mai fatto tremare un impero o condotto un esercito in battaglia. Non avete scritto le opere di Shakespeare». Molti hanno accolto tale esortazione come un invito a cestinare secoli di completa dedizione ai figli e alle mansioni domestiche, per voltare drasticamente pagina, in visione di un futuro di totale emancipazione dal nucleo famigliare, per cui la donna porrebbe sé e solo sé al centro. Forse nella tenacia con cui la Woolf esprime il suo messaggio trova ragione tale interpretazione, ma questo approccio alle sue parole non spingerebbe oltre alle mere emozioni che la scrittrice sicuramente vuole suscitare nelle donne che la ascoltano e la leggono: il suo messaggio deve indisporre, deve irritare, ma solo per aprire un varco alla riflessione. L’invito è piuttosto ad aprire gli occhi su possibilità come il diritto di voto, che prima d’ora non avevano mai visto la luce: «posso ricordarvi che dal 1866 esistono in Inghilterra almeno due college universitari femminili, che dopo il 1880 la leggere permette ad una donna sposata di possedere i propri beni, e che nel 1919 le è stato concesso il voto». Il genere femminile sta finalmente acquisendo i mezzi per esprimere la propria voce: la vita di chi ascolta non può rimanere uguale a se stessa.

Non si tratta però di una semplicistica inversione di marcia: prima il dominio maschile, ora quello femminile. «È fatale per chiunque scriva pensare al proprio sesso. È fatale essere un uomo o una donna, puri e semplici, bisogna essere donna-uomo oppure uomo-donna. […] Dico fatale perché qualunque cosa sia scritta con la consapevolezza di quell’attitudine è destinata a morire. […] Ci dev’essere una certa collaborazione nella mente, tra la donna e l’uomo, prima che possa completarsi l’arte della creazione. Si deve consumare un matrimonio degli opposti». La scrittura non può essere allora rivendicazione di un sesso sull’altro, ma esercizio di equilibrio che solo nella sua eterogeneità trova la verità.

La figura della donna trova soluzione al paradosso iniziale, nella misura in cui a parlare non è più solo l’immaginario maschile, ma entra in scena la componente del sesso opposto che, grazie ad un’emancipazione che ancora oggi fatica a imporsi, sola può concorrere con l’altra nella creazione dell’arte.

Alice Dusso

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