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Eichmann e la meccanica del male

Fotografia di Manuel Monfredini
Fotografia di Manuel Monfredini

Nel noto saggio La banalità del male (1964), Hannah Arendt accende la luce sul marchingegno disumano che ha scisso per sempre la decisione etica dalle sue conseguenze.

Ingranaggi, nastri e rotelle oliati a dovere incalzano una produzione, il cui avvio è stato ordinato in un frangente remoto, in un tempo e uno spazio distanti dal presente della macchina. Il genio dietro al sistema non siede ora alle scrivanie d’esecuzione, ma neppure chi occupa quelle sedie ha un’idea palpabile del prodotto che esce dalla fabbrica. È un “disinnesco” il risultato delle manovre precise e serrate dello sterminio ebraico: le fatiche di tutti i processi si risolvono nell’estinzione della materia prima. «I nazisti implicati nella “soluzione finale” si rendevano ben conto di quello che facevano, ma la loro attività, ai loro occhi, non coincideva con l’idea tradizionale del “delitto”». [1]

Hannah Arendt squarcia, con le deposizioni del gerarca nazista Adolf Eichmann, il velo che nascondeva le logiche di morte del Terzo Reich. Dai documenti di Gerusalemme emerge l’abisso che divide la consapevolezza delle operazioni eseguite dalla coscienza dei risultati finali di queste. A suscitare l’orrore non sono tanto i racconti degli esiti del genocidio, le cui cifre erano già spaventosamente note, quanto più la natura del processo dietro essi. Una burocrazia asettica preme i bottoni e apre le gabbie di tortura quasi come un automa, gelidamente distante dall’odore del sangue che faceva versare. «I giudici sapevano che sarebbe stato quanto mai confortante poter credere che Eichmann era un mostro […]. Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. […] Questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica […] che questo nuovo tipo di criminale […] commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male». [2]

La distanza totale da ogni empatia era qualcosa, però, di cui le SS andavano particolarmente fieri. Un certo dott. Servatius, sebbene non aderì mai al partito, tenne una lezione alla Corte su ciò che significa “non essere emotivi”, arrivando a definire l’uccisione mediante i gas una mera “questione medica”. Il feroce meccanismo, per quanto automatico potesse apparire, non si generava da solo: la responsabilità del delitto non esula i suoi carnefici, anche i più ciechi. «E quali che siano gli accidenti esterni o interiori che ti spinsero a divenire un criminale, c’è un abisso tra ciò che tu hai fatto realmente e ciò che gli altri potevano fare, tra l’attuale e il potenziale». [3] Ed è di questo attuale che la perizia tecnica militare del Reich si è macchiata: aver permesso che una logica calcolatrice dettasse il ritmo a decisioni di natura etica, le quali, per loro stessa definizione, implicano l’azione del giudizio umano.

Quest’ultimo è stato, invece, delegato ad un’amministrazione meccanica che ha soffocato «non tanto la voce della loro coscienza, quanto la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza degli altri».[4] Lungi dall’essere questa silente corruzione dell’animo prerogativa della sola Germania hitleriana, essa vedrà poi il successivo sviluppo tecnologico spingere sempre più verso il distanziamento tra decisione etica ed effetto della stessa. I chilometri che separeranno nel 1945 i soldati che premeranno il bottone per il rilascio degli ordigni atomici dal terreno di Hiroshima e Nagasaki agiranno da anestetico per le coscienze di esecutori troppo composti sulle loro sedie per credersi compromessi da una strage.

«Sapevamo che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Alcuni risero, altri piansero, i più rimasero in silenzio. Mi ricordai del verso delle scritture Indù, il Baghavad-Gita. Vishnu tenta di convincere il Principe che dovrebbe compiere il suo dovere e per impressionarlo assume la sua forma dalle molteplici braccia e dice, “Adesso sono diventato Morte, il distruttore dei mondi.” Suppongo lo pensammo tutti, in un modo o nell’altro». [5]

Alice Dusso


[1] H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 1964, p. 94.
[2] Ivi, p. 282.
[3] Ivi, p. 284.
[4] Ivi, p. 113.
[5] J. R. Oppenheimer nell’intervista tratta dal documentario The Decision to Drop the Bomb (1965), prodotta da Fred Freed, NBC White Paper.

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