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L’immobile fuga dalla maturità ne “Il Giovane Holden”

Fotografia di Filippo Ilderico

Nel suo romanzo di maggior successo (Il Giovane Holden, 1951), Salinger tratta il contraddittorio indugio di un adolescente sulla strada per l’età adulta.

Holden sarebbe potuto andare a vedere che faceva Mal Brossard, tanto per ingannare la deprimente calma del dormitorio alla Pencey, ma, tutto ad un tratto, cambia idea: quella notte stessa se ne andrà via dalla scuola. D’improvviso decide così, senz’alcun progetto in mente: i corridoi erano vuoti il sabato sera, girarci attorno era avvilente e, ad ogni modo, avrebbe lasciato l’istituto per sempre pochi giorni dopo, a seguito dell’ennesima bocciatura. Holden non torna a casa però, i suoi ancora non sanno del fallimento a scuola e, prima di affrontarne ogni conseguenza, una stanza d’hotel a New York sembra essere la soluzione adatta per prendere fiato.

Quella del giovane Caulfield non è propriamente una fuga, piuttosto un indugio: egli si ritrova in strada perché tra la possibilità di finire i suoi ultimi giorni a Pencey come sempre li aveva vissuti e prendersi la responsabilità del fallimento di fronte ai genitori, sceglie la terza via, limbo tra ieri e domani. Ora il passato ha fatto il suo tempo, ma il futuro richiede una maturità che Holden non è ancora disposto a sostenere.

Tra le street e le avenue di New York, le tappe dello studente errante non segnano un’evoluzione né una crescita dello stesso, quanto invece un’accozzaglia di incontri, alcuni dei quali del tutto casuali. Non c’è speranza per il mondo a cui Holden si affaccia: superficiale e ingannatore, l’universo adulto agli occhi dell’adolescente è cieco alla propria ipocrisia e non c’è niente che si possa salvare.

Al contrario, sono gli stessi bambini che Caulfield intende preservare dalla corruzione morale della maturità, come chi afferra i fanciulli che giocano in un campo di segale, appena prima che cadano nel dirupo dell’età adulta. La sorellina Phoebe e il ricordo del fratello morto giovanissimo, Allie, intatti nella loro innocenza, sono quanto di più caro custodisce in questa vita, la copertina di Linus che stringe quando la solitudine e la depressione si avvicinano. Con questa purezza contrasta la noncuranza di Sunny, la prostituta, per la sua sensibilità e l’indifferenza dell’amica Sally ai piani di fuga dalla società che lui odia.

Eppure, nonostante tutti i vizi che imputa ad ogni persona che incrocia la sua strada, la paura di rimanere solo lo spinge a cercare contatti con l’esterno, con un universo in cui inevitabilmente dovrà addentrarsi. In questa continua contraddizione si gioca il conflitto adolescenziale di chi fatica ancora a trovare un equilibrio tra chi non sarà più e chi si prepara ad essere. Il proposito di diventare il pescatore nella segale – The Catcher in the Rye, titolo originale dell’opera – non può trovare attuazione: il primo ad essere chiamato a lanciarsi nel dirupo della maturità è il protagonista stesso. Il vuoto sotto ai piedi rimane buio finché non si salta e l’inevitabile abbandono dell’infanzia vale il rischio di una caduta rovinosa; così medita sulla giostra lo stesso Holden: «tutti i bambini si sforzavano di afferrare l’anello d’oro, anche Phoebe, e io avevo un po’ paura che cadesse da quel maledetto cavallo, però non dissi e non feci niente. Il fatto, coi bambini, è che se vogliono afferrare l’anello d’oro, uno deve lasciarli fare senza dire niente. Se cadono, amen, ma è un guaio se gli dite qualcosa» [1].

Ecco allora che il discorso del professore Antolini, via di mezzo tra richiamo e lezione di vita, fa luce sull’essenziale chiave di accesso alla conoscenza di sé che l’istruzione accademica, da cui Holden continua a fuggire, conferisce: «le misure della propria mente» [2] e le idee che meglio la vestono possono trovarsi solo nel raffronto con le testimonianze del vissuto umano, che le discipline come la letteratura e la storia tramandano da secoli.

La strada di Holden si sta quindi appena affacciando all’orizzonte, ma i contorni di senso delle vicende narrate ancora faticano a venire a fuoco. Nell’ambiguità del finale, però, si scorge appena lo sciogliersi di emozioni che finora Caufield nascondeva sotto un’amara ironia, come a segnare la caduta delle prime resistenze alla crescita: «se proprio volete saperlo, non so che cosa ne penso. […] So soltanto che sento un po’ la mancanza di tutti quelli di cui ho parlato. […] È buffo. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.» [3] 

Alice Dusso


[1] J.D. Salinger, Il Giovane Holden, 1951.
[2] Ibidem
[3] Ibidem

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