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Il viaggio immaginario del “Doganiere”

Fotografia di Filippo Ilderico

Henri Rousseau nel 1868 viene assunto presso gli uffici del dazio doganale di Parigi e qui, nel tempo libero, dipinge nature lontane e paesaggi onirici. I suoi quadri portano contemporanei e amici a credere che egli sia stato in Messico e lo stesso pittore alimenta questa leggenda per dare credibilità alle sue creazioni. In verità il “Doganiere” non si è mai mosso dalla Francia: i suoi labirinti verdi sono il frutto di una strada tutta individuale, un viaggio senza spostamenti, in compagnia di un violino, arazzi gotici, stampe esotiche e dell’album “Bêtes sauvages”.

Nonostante la miseria finanziaria, Rousseau, dopo le prime esposizioni al Salon des Refusés (1885) e al Salon des Indépendantes (1886), decide di andare in pensione anzitempo per dedicarsi alla raffigurazione di un mondo esotico e negromantico, teso tra la magia del sogno e la violenza selvaggia del primitivo. Arrotondando le entrate con lezioni di violino e ritratti di famiglia, ottiene il riconoscimento artistico solo agli inizi del Novecento, quando, dopo moltissimi dissensi (i suoi quadri erano considerati dalla critica semplicemente “ridicoli”), conquista il favore di Picasso, Braque, Apollinaire, Alfred Jerry, Rèmy de Gourmont e altri.

Nel 1908, quando Rousseau ha già 64 anni, Picasso organizza in suo onore un banchetto destinato ad entrare emblematicamente nella storia dell’arte. Numerosissimi sono gli ospiti che si radunano attorno alla tela Ritratto di donna (1895). Si aspetta per due ore la cena, che per sbaglio era stata ordinata per il giorno dopo, e così ci si ritrova a svuotare una cinquantina di bottiglie di vino accompagnate da sardine in scatola [1]. Il “Doganiere” suona le sue composizioni di genere popolare al violino e Apollinaire, ad un angolo del tavolo, improvvisa una poesia su di lui, la cui seconda strofa recita: «Dipingi nei quadri ciò che vedesti in Messico / il sole rosso tra le foglie di banane, / scambiasti poi la divisa del valoroso soldato, Rousseau, / con l’uniforme blu, delle dogane» [2].

Tra il 1861 e il 1867, infatti, il pittore si era arruolato come volontario nel 51° reggimento di fanteria di Angres; in quel periodo le truppe francesi erano impegnate in una spedizione militare per l’incoronamento di Massimiliano d’Austria ad imperatore del Messico. È stato dimostrato, però, che Rousseau non prese parte all’impresa ma rimase in un battaglione di guarnigione ad Angres. I suoi contemporanei, tuttavia, credono fermamente a questo mito che bene si adatta alla figura del “Doganiere”, da molti considerato uno dei primi artisti “naïf” e che amava farsi definire abitante di un paradiso terrestre [3].

Le 26 versioni pittoriche sul tema della giungla vengono realizzate da Rousseau tra il 1904 e il 1910 e rappresentano il punto di arrivo di un viaggio artistico che però parte sempre da elementi del reale. Fin dai primi quadri, l’artista ricava dalla realtà che osserva i principi ordinativi dei suoi immaginari: le strutture di recinzioni e i cancelli diventano architetture arboree (La passeggiata nella foresta, 1886); i parchi cittadini e le campagne del nord della Francia si trasformano in scene cristallizzate nel tempo e nello spazio (Passeggiata al parco Monsouris, 1910; Rive dell’Oise, 1908).

Già prima che Rousseau vada in pensione Roche Grey scrive: «Henri Rousseau visse senza rancore la sua povertà, aspettando come gli altri la domenica. […] Tutto questo l’ha visto, amato e dipinto nelle splendide domeniche in cui l’intensità della gioia in tutto il mondo diventa elemento vitale che crea atmosfera» [4]. Molti dei quadri del “Doganiere”, infatti, introducono lo spettatore in un’atmosfera idilliaca che sfocerà in quel “paradiso terrestre” di cui egli si dichiara conoscitore; un luogo che non lascia spazio ai problemi quotidiani e che promette un’eterna domenica: dietro i suoi mondi si maschera infatti una continua «lotta individuale contro la civiltà civilizzatrice e l’isolamento tra le pareti domestiche» [5].

L’idillio però è spesso ingannevole: in esso si insinua anche il mistero, l’oscuro e la violenza che costituiscono l’altra faccia del primitivo. Il selvaggio e il magico assumono svariate forme: nei ritratti i corpi sono spesso sproporzionati, nei paesaggi determinati elementi naturali si rivelano sovrastanti. Selvaggio e magico prendono poi definitivamente corpo in quadri come La zingara addormentata (1897) e soprattutto nello scenario della giungla; qui la brutalità animale è immersa tra le foglie immobili della foresta che assiste in silenzio a scene come Il pasto del leone (1907), Giungla con cavallo assalito da un giaguaro (1910) o Il leone affamato e l’antilope (1905) in cui dall’occhio dell’antilope scende, appena percettibile, una lacrima trasparente. La violenza comunque non è mai diretta e sanguinaria ma sempre circondata da un alone magico che le assegna un posto più vicino all’onirico che al reale. Dove c’è violenza, per Rousseau, c’è mistero e inspiegabilità, come dimostrano L’incantatrice di serpenti (1907), Brutta Sorpresa (1901) e il celeberrimo Il sogno (1910).

Anna Nicolini


[1] C. Stabenow, Henri Rousseau, 1992
[2] G. Apollinaire, Le Douanier in Les Soirées de Paris, 1914
[3] C. Stabenow, Henri Rousseau, 1992
[4] R. Grey, Henri Rousseau, 1922
[5] C. Stabenow, Henri Rousseau, 1992

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