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L’insostenibile pesantezza dell’ultimo giorno

Fotografia di Filippo Ilderico

Edito anonimo nel 1823, L’ultimo giorno di un condannato è il breve romanzo, quasi un pamphlet, dietro cui si nasconde il noto Victor Hugo, che nella narrazione delle ultime ore di vita di un condannato a morte esprime tutto il suo dissenso contro la pena capitale.

Ignoto e impersonale. Queste sono le due parole d’ordine che Hugo prende a modello nel descrivere il condannato protagonista e il suo delitto. Una scelta mirata a dar voce non ad uno, bensì a tutti i condannati a morte, e a dare l’occasione a tutti, anche ai più lontani dalla lama della ghigliottina, di immedesimarsi nella vicenda narrata.

In questo romanzo, che lo stesso Hugo definisce nella prefazione “una pubblica arringa travestita da racconto“, il lettore non fa altro che attendere un finale che non si nasconde nemmeno sulla copertina. L’autore però non vuole mostrare la folla festante, la decapitazione macabra o il pathos che si cela in ogni esecuzione capitale, ma vuole rendere chiara, denudata e inerme, la differenza gelida fra la vita e la morte.

Le settimane e le ore del protagonista che precedono il boia sono costellate di angosce, di speranze momentanee e di abbattimento, e con queste Hugo lascia intravedere una tortura molto peggiore dei lavori forzati, propugnando l’idea che anche la sofferenza mentale, oltre che quella fisica, sia una tortura in piena regola.

Hugo, che non conosce altro modo che questo per scagliarsi contro la barbarie del suo tempo, mette in scena il condannato affinché anche chi guarda da fuori possa sentire per un secondo la lama della ghigliottina.

Passato un giorno in piazza subito dopo una decapitazione, il romanziere francese non può che inorridire di fronte alla scena truculenta che gli si apre davanti agli occhi. Pare quindi che questa sua protesta scritta, queste sue memorie fittizie, servano a far capire ai parigini festanti che la pena capitale non va affatto presa con leggerezza, ma che sarebbe anzi da aborrire.

L’antitesi forte che regge la trama, base della critica di Hugo, è proprio il contrapporsi dell’ansia del condannato all’estrema leggerezza con cui tutti i personaggi che lo circondano vivono la sua pena.

Così il cappellano che lo deve confessare diventa tremendamente anonimo e incapace di compassione, ormai abituato a trattare con i clienti del boia. Tutte le guardie, così come la corte che lo giudica, lo vedono come un oggetto, e non più come un essere che pensa, sogna e ama la figlia piccola.

E nell’indifferenza della popolazione tutta, che in parte ne ride, quasi fosse un fenomeno da baraccone, Hugo mostra il punto di vista dello sconfitto, mettendo davanti al giudicante lettore il suo imputato, con cui, in fondo, condivide moltissimi tratti. La leggerezza si tramuta quindi in presa di coscienza dell’animo del condannato, che non potrà più essere visto come un oggetto o un disgraziato in più da confessare.

Il protagonista però, nella sua cella di isolamento non vive della leggerezza di cui si nutrono i concittadini, nemmeno di fronte a morte certa. Ogni cosa per lui è l’ultima: l’ultimo sonno, l’ultimo sogno, l’ultima veglia. E davanti a tutte queste l’angoscia non lo abbandona, rivelandogli quanto l’essere sia in realtà insostenibile di fronte anche ad un destino già segnato.

L’abilità di Hugo qui sta nel togliere quel velo che fa dire “è una morte rapida e indolore” o “perché disperare quando già sei condannato?” e mettere infine il lettore davanti alla fatidica domanda: “come vivresti il tuo ultimo giorno?

Giordano Coccia

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