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L’insostenibile leggerezza nell’essere Chet

Fotografia di Filippo Ilderico

Chet Baker, trombettista della west coast, conosciuto anche per la sua inconfondibile voce – leggera, lirica, sensuale, intimista ma non priva di un’energia vibrante manifestata con inusuale semplicità – riusciva ad emergere con una raffinatezza priva di estro estetico, sebbene sia indiscussa la malinconia percepita tra le sue note, quasi come a nascondere con eleganza la pesantezza di una vita non sempre facile.

Definito il Raimbaud del jazz [1], rappresentante dell’idea di genio e sregolatezza di un’intera generazione, Chet Baker – musicista autodidatta ma non per questo meno talentuoso e consapevole – ha dominato, insieme al suo amico baritonista Gerry Mulligan, la scena del jazz della West Coast americana degli anni ’50, suonando con i grandi del tempo (Stan Gets, Charlie Parker, Bill Evans e molti altri). La sua lunga carriera è stata discontinua e ha visto alti e bassi. Numerose sono infatti le pagine di giornali scandalistici che descrivono la sua vita: gli arresti per droga, la passione per le belle donne e le auto, il suo declino e il suo conseguente lavoro in una stazione di servizio; e poi ancora pagine e pagine riguardo al suo ritorno nel grande panorama musicale del ‘78, i misteri riguardo alle aggressioni fisiche subite (forse per debiti) e, non ultimo, i dubbi sulle cause della sua tragica morte, avvenuta a soli 58 anni nel maggio dell’88.

I capolavori più memorabili sono sicuramente legati alla sua capacità interpretativa e alla spontaneità del suo scat (improvvisazione vocale con l’uso di sillabe e onomatopee). Esempi indiscussi sono la ballad My Funny Valentine (nel quale emerge una sensibilità priva di sentimentalismo) e l’intero album It Could Happen To You (1958), uno studio doveroso per tutti i cantanti di oggi che si approcciano all’improvvisazione e allo studio del jazz [2]. Ad esempio, il solo vocale su But Not For Me del ‘79, sembra una narrazione colloquiale: Chet scivola facilmente tra le note con una velocità invidiabile, con ‘semplicità’ e ‘senza affanno’, due concetti interiorizzati – come da lui stesso dichiarato – grazie agli insegnamenti del musicista Jimmy Rowles, conosciuto agli inizi della sua carriera.

Con la stessa liricità, dimestichezza, pacatezza e rilassatezza soffiava nella sua tromba, aggiudicandosi (tra il ’54 e il ’55) la nomina di tromba bianca più famosa del jazz [3] oltre che un posto in prima linea tra gli esponenti del Cool Jazz di quegli anni. I suoi fans lo hanno però sostenuto anche durante i periodi di estrema fragilità in cui, nonostante tutto, si rifugiava nella musica, quasi fosse un appiglio per non perdersi del tutto. Numerose testimonianze raccontano delle numerose persone che nel ‘60 si radunavano sotto le finestre del carcere di Lucca (nel quale è stato in detenzione per più di un anno) per ascoltare le note struggenti ed emozionanti provenienti dal suo amato ottone [4].

Il fotografo e regista Bruce Weber, ammiratore di Baker, si imbattè in lui alla fine degli anni ’80, e diede vita ad un interessante documentario (Let’s get lost) uscito nell’88 [5]. Esso racconta l’ultima fase di Chet, tormentata e contrapposta alla fresca giovinezza ma anche alle pressioni di una celebrità lasciata in pasto alla competizione e al mercato discografico di quegli anni. Del resto, si tratta di una vita di «caos incessante intriso di puro genio» ma Chet non avrebbe voluto diversamente [6].

Nonostante questo, entrare nell’intimità del vissuto di un artista non è mai facile. Si può solo rimanere in ascolto di fronte a quella apparente leggerezza, e dedurre le innumerevoli sfaccettature della sua pesantezza interiore, cercando di cogliere quell’indiscussa ed interminabile ricerca di equilibrio che ognuno fatica a raggiungere. Forse si possono cercare delle risposte leggendo la sua autobiografia “Come se avessi le ali”, uscita postuma nel ’98, grazie al ritrovamento degli scritti olografi dell’autore. Del resto, come la ex moglie Carol afferma nell’introduzione del libro, «Troppo spesso le celebrità sono ridotte a caricature monodimensionali. La percezione del pubblico finisce col delimitare la personalità e l’anima entro rigidi confini. Troppo facile. C’è sempre in una persona molto più di quello che il pubblico riesce a vedere, e mai come nel caso di Chet Baker si può fare questa affermazione» [7].

Eleonora Gioveni


[1] Omaggio a Chet Baker: Franco Maresco presenta “Let’s get lost” di Bruce Weber
[2] Chet Baker’s greatest scat solos, Jim Bastian (SpeakPeacePress, 2001)  
[3] Chet Baker “No alla droga sì al jazz” (Rai 1980) rara intervista in italiano
[4] Muse inquietanti Chet Baker
[5] Omaggio a Chet Baker: Franco Maresco presenta “Let’s get lost” di Bruce Weber
[6] Come se avessi le ali. Le memorie perdute, Chet Baker (Minimum Fax, 2009)
[7] Ibidem

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