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Evadere dalla realtà: un Werther condannato dal proprio panteismo

È il 1774 l’anno in cui, l’autore pre-romantico J.W. Goethe firma I dolori del giovane Werther, costruendo quell’emblematico (e omonimo) personaggio edonista, forte raffigurazione di una frammentazione d’animo che si scollega dal mondo esterno.

Individuo affamato di sensibilità e bellezza, ma contemporaneamente angosciato dall’incostanza dei propri sentimenti all’interno di un Universo che non trova risposte alle sue domande, Werther trova nella prima parte del romanzo –  nella lettera datata 10 Maggio – la pace dei sensi, divenendo un tutt’uno con la natura.

È la madre terra a rappresentare proprio nelle prime righe del testo la migliore amica del giovane, con le sue bellezze concrete quanto semplici che designano la vera felicità, il concetto stesso di meraviglia e vita. Il profumo dell’ambiente circostante, accompagnato dai suoi classici suoni e dalla vastità di creature in essa abitanti, portano Werther a disconnettersi dalla realtà che lo sopprime regalando invece al suo – già – debole cuore una rinascita e una carezza ammaliante.

L’arte stessa, qui applicata ai campi della lettura e della pittura (ad esempio la passione di Werther per il brano letterario I canti di Ossian e la sua abitudine a ritrarre persone e ambienti sul proprio blocco) porge la mano al protagonista saldando il rapporto tra l’uomo e il proprio Universo interiore. Individuo e cosmo vanno a spezzare le catene di quella realtà così tristemente dura e monotona, tangibilità che conosce solamente i canoni più rigidi lasciando che l’estetica diventi solo una sfaccettatura alternativa sbagliata.

Saranno la stessa letteratura e la passione per il disegno a rappresentare quelle che si potrebbero definire le gesta anti-eroiche di Werther; la propria vocazione nell’ambito umanistico e l’amore per l’ambiente altro non sono che l’espressione massima del suo animo e del tipo di verità utopistica, edonistica e sentimentale che egli stesso sposerebbe ma non potrebbe mai effettivamente abbracciare in quella società tanto diversa da lui.

All’interno della natura, tra le pagine dei libri, nella grafite della matita, il personaggio trova una sorta di “seconda casa” nella quale ripararsi e guardare come da una finestra il mondo circostante che non gli appartiene, in cui costruirsene uno proprio, nella vana speranza di renderlo vero.

La ricerca del piacere e il panteismo così profondamente radicati in Werther lasciano che sia proprio l’evasione dalla prigione della vita monotona di tutti i giorni – a designare non la salvezza, bensì la condanna a morte dello spirito del giovane che  troverà come conseguenza l’alternarsi di gioia e dolore, di sentimenti sensibili e sessuali, fino al compimento del suicidio come tragico – e inevitabile – finale.

Manuela Spinelli

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