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Icaro in volo verso la realtà di Parigi

Fotografia di Filippo Ilderico

L’edizione Einaudi dell’Icaro involato di Raymond Queneau (1968) riporta in copertina una domanda: «Che cosa accade quando il personaggio di un romanzo fugge?». Attorno a questa domanda, infatti, ruotano la trama e il significato del romanzo di Queneau.

Nella Parigi di fine Ottocento, un romanziere di nome Hubert Lubert scopre che il manoscritto del suo ultimo lavoro è rimasto improvvisamente orfano di Icaro, il suo protagonista. Cercatolo in lungo e in largo per tutta la casa, si affida poi all’investigatore Morcol, che, dopo aver definito il caso “pirandelliano”, si mette subito sulle tracce del personaggio perduto.

Icaro, 1 metro e 76, capelli scuri e naso dritto, si è avventurato per le strade di Parigi, evaso dal manoscritto di Hubert a causa di una folata di vento. Girando per la città con la sua esperienza di una dozzina di pagine, entra in un locale dove scopre per la prima volta l’assenzio. Qui Icaro incontra LN, un personaggio «di origine cruciverbica», di cui si innamora.

Disperato per la sua perdita, Hubert non riesce a continuare il suo romanzo, e si affida ad un dottore che non fa altro che prescrivergli tisane e proporgli sedute pseudo-psicanalitiche. I colleghi intanto ridono della loro buona sorte, continuando a parlare delle evoluzioni dei loro rispettivi personaggi.

In un testo che assume la veste linguistica dell’opera teatrale, Queneau inserisce personaggi e trama assolutamente romanzeschi, storpiando la scrittura drammatica ai fini di un’ironia sottile. Il gioco linguistico e grafico su cui si basa il romanzo non si limita al teatro, ma ragiona anche sulla contiguità tra letteratura e vita, tra persona e personaggio.

La scelta della veste teatrale pone al centro dell’opera il dialogo, la parola, il fatto linguistico che è l’ultima e profonda essenza di tutti i personaggi (e delle persone) che si definiscono nel loro stare con gli altri e fra gli altri. Esulando da descrizioni, Queneau porta subito in scena i protagonisti dell’azione, caratterizzandoli con pennellate velocissime.

Nella immensa Parigi Icaro «guarda, beve, ama, studia, lavora» [1], mescolandosi ad un mondo dove persone reali come Hubert incontrano personaggi, a questo punto non più di invenzione, come LN e Icaro, in un continuo accavallarsi di realtà e finzione.

In un romanzo in cui, a seguito di una rocambolesca trama, fughe, ritorni e incontri con altri evasi, Icaro diventerà un meccanico ed LN la proprietaria di un negozio di pantaloni da ciclista, aleggia costante la domanda su chi fra i personaggi sia il burattino, e chi il perfido burattinaio.

Icaro è forse rinchiuso in un ruolo da burattino, comandato dalle mani di Hubert che lo plasma al suo volere? Oppure il contrario? Forse è proprio Icaro che, fuggendo e aprendo la strada alla fuga di altri, prende il controllo del romanzo e dello stesso Hubert: il primo inconcluso e il secondo disperato. Un sorprendente colpo di scena finale rivelerà chi sta dietro le quinte e chi sta sul palco, in un finale che rende giustizia al nome mitologico del suo protagonista.

Burattinaio ultimo è però Queneau, che trascina il lettore in una storia in cui la realtà e la finzione non esistono, in un mondo in cui tutto si inverte e che, dopo tutto, non è mai stato più realistico.

Giordano Coccia


[1] Si cita la quarta di copertina di G. Neri, ed. Einaudi, 2006, Torino.

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