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De Chirico: oltre la fisica dei manichini

Fotografia di Filippo Ilderico

Giorgio de Chirico (1888, Volo – 1978, Roma), considerato il padre della pittura metafisica, nella sua ricerca degli enigmi nascosti oltre la fisica, sceglie come protagonisti dei suoi quadri i manichini, dimostrando come proprio la prospettiva che l’artista dona a questi oggetti sia in grado di rivelarne – sulla scorta di Nietzsche – l’anima, il linguaggio e la psicologia.

Nietzsche insegna che, se si cambia prospettiva o punto di vista, ogni “cosa” ha una sua anima, un proprio linguaggio e una sua psicologia; non solo le cose animate ma anche quelle inanimate e persino le idee e le opere d’arte e i monumenti e le città e le epoche [1].

Il 1909 è l’anno in cui la pittura di de Chirico, ancora in divenire, subisce la decisiva svolta che lo porterà all’elaborazione della “metafisica”. Quell’estate egli scopre, assieme al fratello Alberto, il pensiero nietzschiano attraverso la lettura dell’Ecce Homo. L’artista inizia quindi un’appassionata esplorazione di testi filosofici con il solo scopo di carpire il segreto della poiesis, della creazione artistica, in modo da impadronirsi delle conoscenze necessarie per individuare lo spirito nascosto delle cose [2].

Nell’Ottobre dello stesso anno egli ha le prime “rivelazioni”: durante un breve soggiorno a Roma, in momenti di profonda concentrazione, alcuni oggetti e luoghi, nelle assolate ore pomeridiane, appaiono alla sua mente nella loro essenza nascosta, come immagini “altre” dalla realtà visibile. In quell’autunno nascono due quadri completamente nuovi rispetto ai precedenti, L’enigma dell’oracolo (1909) e L’enigma di un pomeriggio d’autunno (1909), che daranno avvio alla pittura “metafisica”.

I nuovi scenari sono animati da particolari soggetti che impediscono di definirli semplici “paesaggi” o “nature morte”, nonostante in essi – almeno in apparenza – non ci sia nulla di fisicamente “vivo”. Questi soggetti sono infatti statue: dalle meditabonde statue maschili dei filosofi della preistoria greca alle sconsolate statue femminili di Arianne che, abbandonate, aspettano immobili di svegliarsi a vita nuova.

Successivamente, tra la primavera e l’estate del 1914, alle soglie della guerra, appaiono i primi manichini. L’automa – emblema dell’inanimato – prende il posto della statua che, a sua volta, aveva sostituito l’essere umano. Si tratta di un processo che l’artista stesso fa metaforicamente iniziare con la lettura infantile di Pinocchio e terminare con il chiaroveggente Così parlò Zarathustra [3]. Il culmine è infatti lungimirante: la spaesante animazione dell’inanimato. A donare un’anima al manichino è l’arte pittorica. La nuova prospettiva fornita dall’artista – che si pone come un demiurgo – è, infatti, l’unico mezzo in grado di ribaltare enigmaticamente il ruolo dell’automa: i manichini generati dal pennello di de Chirico passano dall’essere oggetti di sartoria all’essere filosofi (Il grande metafisico, 1917), poeti (Il trovatore, 1917) e personaggi della mitologia classica (Ettore e Andromaca, 1917; Le muse inquietanti, 1918).

Con questi dipinti, realizzati nel clima di una magica Ferrara rinascimentale, l’artista intende presentare una precisa concezione del mondo e del rapporto tra l’uomo e il mondo. L’essere umano, nella sua vita piena di dolori e inquietudini, è sottoposto a un fato contro il quale non si può opporre (Il ritornante, 1917-1918). Burattino del destino, egli è simile ad un automa e sottostà alla grande pazzia dell’universo che lo costringe a perenni e strazianti rituali. Ne è un esempio quello dell’addio del soldato alla sua donna, che accompagna l’essere umano sin dai tempi del mito (rappresentato dal pittore in Ettore e Andromaca, 1917).

Qualcosa è però in grado di riscattare l’uomo: il canto poetico dell’arte capace di affrancarsi dal Tempo. Vedendo con chiarezza nel passato e nel futuro, il trovatore e l’artista metafisico possono dotare l’uomo di una spiritualità. Il grande metafisico (1917) è l’unico «dotato di una chiaroveggenza che lo libera dalla fede e dal dolore»[4].
Solo l’arte libera il burattino dal suo ruolo di marionetta, l’automa dal suo essere senza vita; ed è il “poeta-demiurgo-metafisico” a tagliare i fili che lo legano ad un destino di dolore. Il pennello sposta, cambia – con effetto disorientante per lo spettatore – il ruolo e la connotazione dell’automa che non è più oggetto privo di sentimenti. Nei quadri del periodo ferrarese le teste dei manichini si inclinano l’una verso l’altra in muti dialoghi e le plastiche pose dei corpi si fanno più intime, animandone le meccaniche.

Anna Nicolini


[1] P. Baldacci, De Chirico, 2018
[2] P. Baldacci, De Chirico, 2018
[3] G. de Chirico, Hebdomeros, 1929
[4] P. Baldacci, De Chirico, 2018

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