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Klee: l’ultimo discendente di una società tramontata

Al Mudec di Milano è esposta, fino al 3 marzo 2019, la mostra Paul Klee. Alle origini dell’arte, che segna il percorso di un artista eclettico, la cui arte affonda in molti precedenti diversi per rielaborarli in opere innovative.

Paul Klee considera originaria non l’arte delle caverne, ma un’esperienza che permetta all’artista di guardare la realtà e il quotidiano in maniera distanziata e distaccata. Comincia il suo percorso per risalire a tale esperienza attraverso una serie di caricature, grazie alle quali dà vita a figure fantastiche e che usa per scoprire l’antico. Klee infatti matura l’interesse per ciò che nell’arte è “selvaggio” e “primitivo” durante il primo viaggio in Italia, tra 1901 e 1902, con la scoperta dell’arte paleocristiana. Al cospetto di tali opere si sente il discendente di una cultura ormai tramontata e attinge da queste forme “primitive” un gusto deformante mediante il quale infrangere la monumentalità e l’andamento anticheggiante dell’arte su cui si è formato a Monaco.

Da quel momento l’artista ricerca un proprio linguaggio con cui filtrare e mostrare in modo nuovo la realtà, una realtà considerata come qualcosa di vivo e che quindi non può essere imitato dall’arte in modo pedissequo.

In un continuo attraversamento del precedente Klee attinge dalle forme d’arte più disparate, dalle rappresentazioni dei libri medievali e rinascimentali all’arte extraeuropea, convinto che nell’arte sia possibile cominciare da capo «[…] più che altrove nelle raccolte etnografiche, oppure a casa propria, nella stanza riservata ai bambini» e che «[…] se oggi si vuol procedere a una riforma, tutto ciò è da prendere molto sul serio, più sul serio che tutte le pinacoteche del mondo». Sia l’etnografia che l’arte dei bambini, d’altra parte, sono a inizio Novecento oggetto di interesse in quanto forme attraverso le quali è possibile una vista sul reale diversa dall’immaginario comune europeo.

Nel suo percorso di ripresa e rielaborazione finisce per approdare, durante la seconda parte della guerra, a una rigenerazione iniziatica dell’arte e della letteratura più antiche – in particolare di quella bizantina, delle miniature e dell’arte del periodo delle “migrazioni di popoli” – inserendosi nel filone di quanti, come lo scrittore tedesco Karl Wolfskehl, con cui Klee era in stretto contatto, venivano definiti a Monaco “cosmici”.

Riproducendo un clima di quiete e pensosità, le opere di questo periodo sembrano infatti arrivare addirittura alla volontà di indagare le leggi che regolano l’universo.

La ricerca di Klee adotta anche veri e propri linguaggi utilizzati come parte delle sue opere: a lettere e segni grafici tratti dai vari alfabeti che incontra nei suoi viaggi si aggiungono alfabeti d’invenzione, tutti inseriti con intento allusivo. L’uso di questi segni è finalizzato a una comunicazione con l’osservatore che lo spinga a esplorare ciò che sta dietro all’immagine, a interrogarsi sul suo significato, mai immediato, ad un’attenzione e a un interesse che porti a cercare di decifrare l’opera.

Nella sua biografia di Klee, Wilhelm Hausenstein (1921) pone l’accento su come nell’arte del periodo scompaia la corporeità delle figure, la loro riconoscibilità, inconfondibile invece in opere antecedenti come quelle di Courbet. È proprio attraverso questa natura più sfuggente della corporeità della rappresentazione che Klee riesce a rielaborare un’ampia varietà di inputs creando uno specchio del reale tutto da decifrare.

Elena Sofia Ricci

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