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Bagheria: Dacia Maraini apre la porta sprangata della Sicilia disconosciuta

Dopo anni di volontario esilio dai luoghi d’infanzia, Dacia Maraini torna con Bagheria (1993) ad addentrarsi in villa Valguarnera, erosa dalla decadenza di una nobiltà che la donna ha finora sempre ripudiato, per trovarsi rapita dagli occhi ritratti di una nobile, emblema del suo indissolubile legame al passato bagariota.

«Pensavo di averli buttati fuori dalla mia vita con un atto di volontà. Mai frequentato parenti siciliani. […]Io non ne volevo sapere di loro. Mi erano estranei, sconosciuti. Li avevo ripudiati per sempre già da quando avevo nove anni ed ero tornata dal Giappone affamata, poverissima».

Con parole di inflessibile fermezza, Dacia Maraini recide fino a prima dell’età adulta ogni legame con la stirpe d’origine materna, erigendo un muro che traccia un confine ben netto tra l’antiquata nobiltà dai natali siciliani e il suo cuore borghese; valico che nel 1993, con la pubblicazione di Bagheria, crollerà inesorabilmente su se stesso. Come poter, infatti, «scacciare come mosche petulanti» – così afferma la stessa scrittrice – quelle antiche storie che le appartengono anche solo in parte, unicamente perché ha deciso che la infastidiscono?

Donna dalle radici più disparate, la Maraini vede mescolarsi nel suo sangue etnie variegate, quasi antitetiche: dalla metà inglese del patrimonio genetico del padre a quella fiorentina dello stesso, passando per le origini cilene della nonna materna e quelle polacche della paterna.

Se per le appena citate discendenze l’autrice non prova alcuna vergogna, affacciarsi al mondo dei ricordi siculi suscita nella stessa «sospetto e leggera nausea». Ora tuttavia «una mano cresciuta da una manica scucita e dimenticata, una mano ardimentosa e piena di curiosità» si fa largo oltre la porta sprangata, «ben mimetizzata con rampicanti e intrichi di foglie», che finora aveva condannato all’oblio la memoria della Sicilia.

Non prima di aver vissuto fino alle soglie dell’anzianità, infatti, avrebbe potuto rileggere con pacata lucidità il passato, calmati gli ardenti spiriti che nella giovinezza avevano portato alcune idee all’estremismo, in dichiarata opposizione al sistema nobiliare, che ella vedeva come carnefice di colui che amava intensamente e profondamente: il padre. Come la madre che, insofferente di ogni imposizione e sprezzante verso i grandi matrimoni che le si volevano imporre, era rimasta affascinata da quel ragazzo burbero e introverso, fino a seguirlo a Fiesole e rinunciare alla vita nobiliare, così Dacia nutrirà sempre un amore solitario e struggente per quello stesso uomo, senza essere mai ricambiata.

Anche dopo la dipartita con cui lui lasciò la moglie sola a crescere le figlie ancora piccole, la scrittrice afferma: «Io stavo dalla parte di mio padre che aveva dato un calcio alle sciocchezze di quei principi arroganti rifiutando una contea che pure gli spettava di diritto».

Non è però possibile rinnegare radici che hanno già inevitabilmente contribuito a sviluppare il soggetto: che questo si sia formato in coerenza o in contrasto con la stessa linfa da cui si è generato, la discendenza è un fattore imprescindibile, con il quale il confronto nel corso della vita è d’obbligo. In questo modo alla frivolezza ed emotività della nonna Sonia, le zie e la madre di Dacia, Topazia, avevano reagito diventando ragazze studiose e intelligenti: senza il raffronto in negativo con la madre esse forse non avrebbero mai sviluppato un interesse così acuto per la lettura. Alla stessa maniera, sarebbe stato difficile immaginare un rifiuto così netto da parte di Dacia nei confronti della nobiltà, se non avesse vissuto assai vicina ai palazzi che cascavano a pezzi, ai ritratti stagnanti e ai lampadari sbocconcellati.

Tra le stesse tele scolorite degli antenati della bagariota villa Valguarnera, l’attenzione dell’autrice sarà rapita dal dipinto di una sua parente di purissima nobiltà, Marianna, il cui aspetto di severità era tradito dal lieve sorriso che si intravedeva attraverso l’increspatura della bocca.

È negli occhi acuti e dolci della nobildonna che, da sordomuta, aveva imparato a scrivere per farsi comprendere dai famigliari, che Dacia troverà il senso del suo ritorno nei luoghi d’infanzia: «come se l’avessi riconosciuta con la parte più profonda dei miei pensieri, come se avessi aspettato per anni di trovarmi faccia a faccia con questa donna morta da secoli, che tiene fra le dita un foglietto in cui è scritta una parte sconosciuta del mio passato bagariota».

Alice Dusso

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