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Interni borghesi e intrecci familiari: «Gli indifferenti» di Alberto Moravia tra crisi della coscienza e coscienza della crisi

Fotografia di Filippo Ilderico
Fotografia di Filippo Ilderico

Alberto Moravia non ha ancora compiuto diciotto anni quando nel 1925 si accinge a scrivere Gli indifferenti, il romanzo che segna il suo esordio nella scena della letteratura italiana del primo Novecento. Il suo è il ritratto di una famiglia ormai prossima allo sfacelo e l’opera viene considerata da alcuni critici il primo libro esistenzialista.

 Gli indifferenti è un romanzo di Alberto Moravia che viene pubblicato nel 1929: se in Germania il nazismo stava ormai per prendere il potere, in Italia il fascismo proseguiva il suo cammino già da diversi anni. Sarà proprio questo periodo storico a fare da quinta alla vicenda familiare che Moravia, non ancora diciottenne, vuole portare in scena. La famiglia Ardengo, protagonista del romanzo, è il simbolo di tutti gli aspetti disperati e corrotti della vita e del costume della società borghese di quegli anni.

L’ambizione di Moravia era quella di portare il teatro nel romanzo; occorre sottolineare, infatti, come tutta la vicenda raccontata ne Gli indifferenti si svolga in un arco temporale di due giorni, addirittura soddisfacendo i canoni aristotelici dell’unità di luogo, di tempo e di azione.

Il romanzo è l’affresco delle vicende di una famiglia benestante appartenente alla borghesia romana degli anni Venti, gli Ardengo: Mariagrazia, la madre, Michele e Carla, i due figli.

Mariagrazia ha un amante, Leo Merumeci, che tuttavia nutre un certo interesse anche per la figlia, scatenando un meccanismo malato: «l’atto definitivo di morte del buon senso borghese», come scrisse Edoardo Sanguineti commentando il romanzo di Moravia. Leo si presenta come la figura più negativa del romanzo. Un uomo potente, che vuole dominare tutto e tutti, perverso e senza scrupoli.

Tra Carla e Leo inizia una relazione segreta, spinta dalla voglia della ragazza di cambiare, di iniziare una nuova vita. O forse l’inizio della storia potrebbe essere letto come un’azione ribelle nei confronti di una madre, personaggio che, più di tutti gli altri, altro non è ormai che una maschera, utilizzata per recitare la commedia di una società che sta perdendo progressivamente ogni legame con la realtà autentica della vita. Carla e Leo si incontrano di nascosto ma una sera vengono scoperti in flagrante da Lisa, amica della madre nonché amante di Michele, la quale non si fa vedere e decide di parlarne proprio con il figlio di casa Ardengo. Quest’ultimo, provando dei sentimenti di odio nei confronti dell’amante della sorella – e, quindi, non solo della madre –, preso dalla collera decide di uccidere l’uomo. Si presenterà con una pistola a casa di Leo ma, dimenticandosi di caricare l’arma, darà vita a una scena tragicomica che costituirà quel famoso atto mancato del romanzo.

Il sistema dei personaggi è abbastanza semplice e chiaro fin dalle prime descrizioni di quello che è un vero e proprio nucleo familiare che nasconde, però, non poche caratteristiche e dinamiche utili a rappresentare una famiglia ben precisa: una famiglia dell’alta borghesia ormai prossima alla crisi.

Nonostante non ci sia un vero e proprio protagonista è innegabile che le vicende più importanti della macchina romanzesca ruotino intorno alla figura dei due “piccoli” di casa, Carla e Michele.

Carla, una giovane ragazza di poco più di vent’anni, avverte che il mondo dell’infanzia è ormai passato e occorre cambiare vita. È necessario, quindi, un atto di violenza. Inizialmente resiste a Leo e alle sue avances, la giovane si renderà poi conto, però, che proprio una relazione con l’amante della madre potrebbe essere quello scatto che riuscirebbe a darle quel cambiamento di cui ha tanto bisogno. La storia di Carla rappresenta un difficile e doloroso, seppur riuscito adattamento. Riesce a conciliarsi, amaramente, con il mondo. Si adatta ad un mondo borghese inizialmente da lei tanto odiato, che poi, con la volontà di sposarsi con Leo, diventa una gabbia d’oro nella quale stare comodamente.

Michele, il fratello, si trova nella stessa condizione psicologica, oscillante tra una vanità falsa e l’indifferenza, in cui sembra al contrario lasciarsi andare, senza combattere. Michele a volte reagisce, o almeno prova a farlo. Vuole ribellarsi a Leo fin dalle prime scene del romanzo, vuole strappare le maschere a tutta quella triste farsa che appare attorno a lui ma la ribellione, quando avviene, diventa noia, indifferenza che svuota ogni azione. La sua voglia di fare si scontra con la sua debolezza, il suo essere un inetto, un pesce troppo piccolo in un acquario troppo grande e crudele. Facendo riferimento ai suoi pensieri e alle sue azioni, il narratore onnisciente della vicenda non fa altro che utilizzare verbi al condizionale, sottolineando quello che Michele vorrebbe realizzare ma che, inevitabilmente, non realizza. Ha la forza di prendere una pistola, di tentare un omicidio, ma riesce addirittura a dimenticarsi di caricare il proiettile, dando vita ad un finale ai limiti della comicità. Quella di Michele è la storia di un adattamento mancato in quanto questo personaggio rispecchia in sé la condizione dell’uomo borghese nel momento in cui assume una sua coscienza critica, o meglio una coscienza di crisi. Ripensa spesso, con nostalgia, al passato: un passato che non può che rimanere tale, lontano da quella che è la sua vita, la sua società.

La vicenda raccontata ne Gli indifferenti si svolge ed è ambientata in quelli che sono dei veri e propri «interni borghesi anni Trenta»: la villa Ardengo, la casa di Leo, la casa di Lisa e il salone della festa da ballo. Poche, ma fondamentali, però, sono le scene all’aperto, come la strada che Michele percorre prima di attentare alla vita di Leo.

Così, in un romanzo scritto e ambientato in un periodo storico ben preciso, la vicenda pubblica lascia spazio a una realtà privata e familiare che, se vista bene, altro non è che un microcosmo simbolo di un macrocosmo ormai immerso in una decadenza, in un atteggiamento di perdita di quei valori del passato, un sentimento che oscilla dall’indifferenza alla noia, nomi astratti e realtà che saranno oggetto di gran parte la narrativa di Alberto Moravia.

Alessandro Crea

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