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La forma dell’invisibile: l’Europa di Lars von Trier

 

Fotografia di Filippo Ilderico © Filippo Ilderico
Fotografia di Filippo Ilderico

Forbrydelsen element (L’elemento del crimine) è il primo lungometraggio diretto da Lars von Trier. Il film, presentato al festival di Cannes nel 1984, dove ha vinto il Grand Prix tecnico, è il primo capitolo della “trilogia europea”, seguito da Epidemic (1988) e da Europa (1991). L’analisi sulla decadenza sociale del vecchio continente, l’ipnosi e una grande esplorazione stilistica sono solo alcuni dei temi che accomunano queste opere cinematografiche.

Fisher (Michael Elphick) è un detective europeo emigrato al Cairo. Perseguitato da continui mal di testa decide di sottoporsi alle cure di uno psicanalista, dove scopre che, se vuole veramente essere aiutato, l’unica terapia possibile è l’ipnosi. Deve tornare indietro di due mesi, lasciareil Cairo, la sabbia e il deserto, deve ritornare con la mente in Europa.

Richiamato dalla polizia per risolvere una serie di omicidi, prima di entrare in servizio decide di chiedere consiglio a Osborne (Esmond Knight), il suo maestro, ormai in pensione e considerato pazzo. Quest’ultimo è l’autore de “L’elemento del crimine”un testo nel quale teorizza la comprensione della mente criminale attraverso una completa identificazione nel malvivente. Le indagini sugli omicidi, che precedentemente aveva effettuato proprio Osborne, portano l’investigatore a pensare che l’assassino sia il misterioso “Harry Grey” il quale, però, risulta essere deceduto tre anni prima in un incidente automobilistico. Gli “omicidi del lotto”, nonostante questo, continuano ad essere effettuati seguendo la stessa meticolosa ritualità, con un perfetto disegno geometrico tra una città e l’altra. Fisher, basandosi sugli indizi frutto delle precedenti ricerche, decide quindi di seguire il metodo teorizzato dal vecchio maestro. Comincia a vestire panni di H.G. nel senso letterale del termine. L’immedesimazione è totale. Frequenta gli stessi locali, compie esattamente gli stessi spostamenti, si procura gli stessi mal di testa e forse, persino, va a letto con la stessa donna. L’elemento del crimine però, è un sentiero pericoloso da intraprendere, si rischia di compiere azioni terribili, di portare avanti il progetto di un pazzo, di perdere sé stessi.

Terminato il racconto, Fisher supplica di essere svegliato. Non si conosce altro.

Con un noir tra i più cupi degli ultimi cinquant’anni, il regista danese ci immerge in un viaggio attraverso le città di un’Europa distopica e ormai a pezzi. Il contrasto tra il mondo occidentale e quello orientale viene fatto risaltare in maniera pregnante innanzitutto dall’aspetto visivo del film. Se fin dai primi minuti ci viene presentato un Egitto illuminato da luce naturale, dove gustiamo la suggestiva architettura araba e percepiamo il soffio del vento che gonfia le lenzuola stese tra una casa e l’altra, nell’Europa di von Trier non c’è spazio per tutto questo. Le ambientazioni, che ricordano quelle di Tarakovskij, sono cupe, nere, completamente sommerse: l’acqua è dappertutto ma non ce n’è un goccio da bere. L’atmosfera è soffocante.Le uniche luci presenti provengono da lampade, quasi sempre gialle che, illuminando i corpi sudati dei personaggi, danno una sensazione di umidità e di asfissia.

I fatti sono  rappresentati attraverso gli occhi di Fisher con un complicato intrico narrativo e una visionealtrettanto difficoltosa. Pochi sono i momenti di lucidità all’interno della pellicola e pochi i momenti in cui si può intravedere un barlume di speranza, quest’ultimo testimoniato da un intenso bagliore azzurro. La singolarità dell’opera viene testimoniata in particolare dall’uso “anarchico” della cinepresa, germe del von Trier successivo. Le riprese infatti, non seguono i consuetudinari movimenti di macchina: le relazioni tra la macchina da presa e gli oggetti, le abitazioni, le città stesse sembrano fatti con l’intento di sfaldarne le forme. L’annullamento dei contorni distrugge la consistenza trasportando le immagini nella dimensione dell’informe. L’autore attraverso questo procedimento riesce, con il caos, a dare una forma all’informe; a rendere visibile l’invisibile.

L’annullamento dei confini non viene espresso solo a livello visivo, ma anche sotto il punto di vista della narrazione. Risulta complicato stabilire una netta linea di demarcazione fra poliziotti e assassini, fra sani e malati di mente. Tutte le sensazioni che genera il film sono funzionali a creare nello spettatore un senso di degrado morale e sociale in un’Europa in balia del caos. Il punto più basso di questo disfacimento lo si prova assistendo al “dive”, il tuffo suicida nel vuoto con una corda legata alla caviglia. Gli adepti lo chiamano rito, la polizia, crimine. Attraverso questo quadro distopico, Lars von Trier ha decostruito fisicamente e visivamente le città, simbolo di un mondo occidentale che, spinto dalla decadenza umana, si sta gettando nell’oblio.

Simone Noris

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