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Ti devo un ritorno: portarsi dentro chi non si è riusciti ad avere accanto

Ti devo un ritorno (Salani Editore, 2016) è il primo romanzo di Niccolò Agliardi, cantautore di successo. È la storia di Pietro, della sua voglia di lasciare Milano e di rifugiarsi in un paesino delle Azzorre con il desiderio di ricominciare: qui incontrerà Vasco e un’isola che verrà stravolta. Il romanzo è tratto da una storia vera risalente al 2001.

Disegno di Giulia Pedone

Ti devo un ritorno di Niccolò Agliardi è un libro che si legge in poche ore. L’autore è nato a Milano, ha 43 anni e si è laureato in Lettere Moderne. È un cantautore che negli ultimi anni ha scritto testi per cantanti come Laura Pausini, Marco Mengoni ed Emma Marrone. Ad ottobre, invece, uscirà il suo secondo romanzo: Per un po’, storia di un amore possibile (Salani Editore, 2019).

L’esordio del giovane scrittore racconta la storia di Pietro, un uomo di trentadue anni che parte da casa sua, da una Milano a volte troppo dura, rigida e babelica, da quelle notifiche dei social troppo rumorose e, perché no, anche da sé stesso. È un surfista mancato e ha perso da poco il padre. Un padre che per lui, nonostante tutto, ha significato e significa ancora tantissimo. Decide di partire per le isole Azzorre, alla ricerca di un mare diverso da quello cui ora è abituato, troppo mosso, sporco: è soprattutto l’immagine di un mare interiore, in cui è difficile fare surf, è difficile fare qualsiasi altra cosa. Parte perché «solo partendo s’impara a perdere autobus, aerei e persone, restando vivi lo stesso». 

Qui nelle Azzorre conosce Vasco, un ragazzo di diciannove anni. È un po’ un fratello maggiore di Riccetto, di Genesio e di Amerigo, un amico di Nino, per fare qualche confronto con la civiltà del romanzo novecentesca [1]: un ragazzo di vita, timido e arrogante nello stesso tempo, con una corazza che lo protegge ma anche tante fragilità. Vasco è anche uno specchio per Pietro, un po’ rotto, certo, impolverato, ma l’immagine che Pietro ci legge all’interno è anche stata la sua. Solo che Pietro è riuscito ad essere più forte.

Il romanzo è ispirato ad una storia vera, una storia di droga che Agliardi racconta con semplicità e con normalità, avvalendosi anche di articoli di giornale che servono ad illustrare in maniera più evidente la base di storia vera da cui poi l’autore elabora una storia d’invenzione. 

Il romanzo ha dei tratti autobiografici con l’autore, ma quest’ultimo, come ha riferito in diverse interviste, ha voluto prendere un po’ di distanza dal protagonista.

Pietro è un ragazzo drammaticamente sensibile e che ha un disturbo d’ansia; si preoccupa e si peggiora la vita cercando troppo spesso dei motivi e delle risposte a tutto. E il tutto sfocia in crisi, in attacchi di panico o, più semplicemente, in seghe mentali. Tutto questo ha un nome: depersonalizzazione. Un eccesso di intellettualismo anche di sindrome ansiosa: quando si esaspera e si distorce è impossibile arrivare a capo di qualcosa. Scoprirà che l’unico modo per guarire da questo sintomo è quello di far vivere la sua pancia, di scoprire la bellezza del mondo: Ti devo un ritorno è anche per questo un piccolo romanzo di formazione.

Pietro scappa da un lutto, anche se non ama molto questa parola. È un surfista piuttosto scarso, così come nelle altre cose: gli manca la testa, la strategia, la misura e la spericolatezza. La stessa spericolatezza che gli manca anche per innamorarsi.Arianna è il primo grande amore di cui si parla in questo romanzo ed è colei che rappresenta un punto di riferimento e un modo di essere che Pietro desiderava imitare ma senza riuscirci. Lei è più forte di lui. Vuole un figlio, un progetto che dovrebbe essere comune. Ma non per Pietro: lui non ne aveva bisogno, non ci pensava neanche.

Ad un certo punto dopo la morte di suo padre dovrà prendere in mano la sua azienda e, da erede, dovrà portare avanti l’impegno paterno di una cosa che a lui non interessa. Sa che si deve prendere un periodo sabbatico, tre mesi alle Azzorre. Meta consigliata da Emanuele, il suo migliore amico, colui che l’ha battezzato, prima di tutti, Granchio. Quando Pietro arriva alle Azzorre succede una cosa molto strana, viene alla scoperta di un fatto di cronaca: ecco la storia vera da cui Agliardi trae materia per il suo romanzo.

Nel 2001 un italiano, di nome Antonio Quarti, parte del Venezuela con un carico di quasi 1000 kg di cocaina che stiva nel suo catamarano alla volta del mercato europeo. Quando è a metà del suo viaggio il timone si sgancia dalla barca e rimane in balia per quasi sessanta giorni. Accade che quest’uomo, all’estremo delle sue forze, non poteva chiedere aiuto. Le correnti trasportano questo catamarano nelle isole Azzorre. Nel momento in cui ha visto, finalmente, la terra, prova ad avvicinarsi e nasconde questo carico con dei pesi negli abissi marini e nelle fessure delle grotte. A quel punto chiede aiuto e viene portato in salvo.

Le onde, le correnti, le reti dei pescatori trasportano la totalità di questo carico sull’isola di San Miguel. Tanti ragazzi che non avevano mai sentito parlare di droga vengono invasi da questa polvere bianca e cominciano ad abusarne, nella maniera anche più creativa. Come bicarbonato, come medicinale, o come farina per impanare delle banane: insomma, diventano degli zombie. 

Pietro si trova in mezzo al periodo in cui in quest’isola accade quello che è raccontato. Un inferno reale che ha stretto le isole Azzorre per dieci anni. Pochissime sono le notizie a riguardo.

La prima cosa da analizzare nel romanzo sono gli elementi e l’alchimia che li percorre. La validità di un testo non sta nelle cose che racconta, ma nella maniera in cui esse vengono raccontate. Agliardi scrive in modo limpido, semplice e mai banale. La sua scrittura, a tratti, ha una forza, ma priva di violenza, che fuoriesce dalla sua penna anche nei racconti delle tragedie, che non mancano all’interno del romanzo. 

Pietro è partito, è scappato da un lutto e da sé stesso. Quando torna sono successe tante cose. Vasco è stato inghiottito dall’incubo della droga e della dipendenza. Pietro, invece, ha ritrovato qualcosa. Questo qualcosa è difficile da definire, non lo capisce il protagonista, e ancor meno il lettore. Ma questo sentimento indefinibile è lo stesso carico di voglia e di entusiasmo che spinge Pietro, un pomeriggio, ad andare a praticare surf con suo fratello Matteo, il figlio quasi adolescente che sua madre ha avuto con un altro uomo: quello che prima veniva considerato come un fratellastro, con tutte le sfumature più negative del termine.

Il romanzo ha una morfologia di genere ambigua. Se da un lato parte da una storia vera per raccontare una vicenda d’invenzione, dall’altro ha al suo interno degli articoli di giornale che esulano dalla vicenda di Pietro e Vasco per raccontare il caso di droga che ha investito l’isola. Forse è anche questo che dona al romanzo un carattere di contemporaneità.

Incasellare questo romanzo all’interno nel panorama letterario dell’oggi non è facile. È un romanzo di formazione che può essere paragonato ed accostato, seppur con tutte le sfumature diverse e necessarie, ad Agostino di Moravia, all’Isola morantiana o a I ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini.

Pietro, nonostante sia grande, un uomo adulto di trentadue anni, compie comunque un percorso di crescita. Ma è anche un romanzo di denuncia sulla piaga della tossicodipendenza e di questa notizia del 2001 che è pressoché sconosciuta ai più. Una notizia di quasi vent’anni fa che tuttavia rimane profondamente attuale. 

Il romanzo di Agliardi non è un grande romanzo, è riconoscibile il suo stile da ottimo cantautore, ma a volte alcune frasi scivolano nella banalità adolescenziale; altre hanno, invece, una struttura più forte, venendo a creare di fatto immagini d’effetto anche di un livello interessante e originale. Ma è comunque un bel romanzo: di grandi romanzi ce ne sono tanti, di belli, invece, pochi. È un libro che funziona, che nella sua semplicità riesce a trasmettere un messaggio. Spesso, dopo la lettura di tanti libri di autori importanti e amati dalla critica al lettore sorge sempre una domanda: «D’accordo, e quindi? Cosa volevi dirmi?». Con il libro del giovane cantautore milanese, invece, no.

È un romanzo fatto di ostacoli, di problemi e di cambiamenti. Di dolore, sì, ma anche di felicità, di sesso e di amicizia e fa del suo carattere semplice e colloquiale la sua forza: anche per questo è un ottimo romanzo che ha anche il merito di poter avvicinare anche i più giovani alla lettura.

Alessandro Crea


[1] Il riferimento è a Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini (1955) e a Nino, il figlio maggiore di Ida Ramundo, protagonista de La Storia di Elsa Morante (1974).

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