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Moravia e la “commedia mancata di chi non sa fingere”

© Giulia Pedone, 15 febbraio 2019
Disegno di Giulia Pedone

Non fallisce il tempismo di un Moravia poco più che diciottenne al suo romanzo d’esordio (Gli Indifferenti, ed. Alpes), quando all’alba dell’ascesa politica del Partito Fascista, anno 1929, inchioda nero su bianco quella borghesia che aveva chiuso gli occhi, nell’atarassia morale più totale, persino ai brogli politici in atto.

«Essendo nato e facendo parte di una società borghese ed essendo allora borghese io stesso, “Gli indifferenti” furono tutt’al più un modo per farmi rendere conto di questa mia condizione. […] Che poi sia risultato un libro antiborghese è tutta un’altra faccenda. La colpa o il merito è soprattutto della borghesia».

Cos’avrà dunque fatto per meritarsi tale ritratto la Milano bene degli ultimi anni Venti che, arroccata tra le alte mura delle sue proprietà, mai ha torto capello ad alcuno? Nulla, indifferentemente nulla. Ed è questo ad angosciare di più il lettore.

Moravia accende i riflettori sugli stessi salotti elitari in cui era cresciuto, immortalando senza esplicito giudizio la decadenza di una borghesia spaventosamente sorda al richiamo della realtà. In un periodo in cui le favole erano all’ordine del giorno e al popolo non si chiedeva altro che cibarsi delle orazioni pubbliche, per essa è cosa facile addormentare la propria coscienza all’ombra di candelabri d’epoca. Porcellane e specchi sono, nel romanzo dello scrittore romano, la scenografia del gioco di rituali sociali che convenzionalmente viene chiamato famiglia dai suoi stessi partecipanti. Maria Grazia, Leo, Carla e Michele recitano il loro ruolo tra le tende di velluto cupo, dove retorici monologhi si alternano ad ardite quanto passeggere sfuriate, mediocri tentativi di dare valore alla tragedia che goffamente cercano di mettere in atto.

Moravia non ha bisogno di minuziose e pedanti descrizioni per rendere magistralmente l’ambientazione: la scrittura scenica si traduce in un’abile ricerca di dettagli evocatori di un’intera atmosfera.

La prosa sagace e realistica dello scrittore si plasma sullo stampo delle diverse situazioni: languida e seduttiva quando passa attraverso gli occhi di Leo che scrutano le gambe di Carla, ironica e tragica quando argomenta le vacue tesi di Maria Grazia.

All’abile arte di Moravia sono sufficienti cinque personaggi e un paio di ambienti per impostare la complicata trama. Tra la villa e le sale da ballo si intrecciano le vicende di Maria Grazia, madre di Michele e Carla, talmente occupata a tramare vendetta contro il compagno, Leo, sospettato di tradirla con Lisa, in realtà amante di Michele, da rendersi cieca alle chiare avances che l’uomo rivolge alla figlia.

Moravia imbastisce abilmente un mondo di rapporti di carta che quanto poco tempo impiegano a consumarsi, tanta poca cenere si lasciano dietro: nient’altro che fragili legami che si prestano facilmente a operazioni di collage. Intercambiabile è, di fatto, la relazione con Michele per la sua amante ora rifiutata, Lisa, secondo la quale «sarebbe stato meglio che non avesse respinto Leo… a quest’ora avrebbe almeno lui». Altrettanto facile è per Leo passare dall’amare Maria Grazia al sedurre la figlia che ha visto crescere da piccola «con le trecce e le gambe nude».

Ci si chiede dove siano finiti i veri rapporti, quelli di carne, turbati da strazio genuino e rattoppati nelle ferite rimarginate, che pochi anni più tardi, nella stessa Italia, creavano la complicità nella famiglia Levi (Lessico famigliare, N. Ginzburg, 1963). Dove il dolore è la minaccia del regime, e non la teatralizzazione di un vuoto dispiacere, il senso del dritto e del rovescio della vita si trova in autentici sentimenti, che ben poco condividono con la finta ira per Leo e il finto amore per la madre, che Michele è incapace di provare genuinamente.

La banale immutabilità di un contesto sociale e politico li protegge dagli autentici orrori di un’esistenza in pericolo e distoglie il loro sguardo da chi li sperimenta sulla pelle: la ricerca dell’emozione dal contatto con una vita autentica, che tocca anche la cruda sofferenza, viene convogliata verso uno sentimentalismo spiccio, finto quanto basta perché la tragica commedia rimanga in piedi.

Nel disegno di Moravia non si prospettano alternative al destino che i protagonisti si vedono costretti a subire o, meglio, manca l’audacia necessaria alla ricerca di una via d’uscita da questo circolo vizioso: i personaggi si caratterizzano come i tipici inetti pirandelliani e sveviani, incapaci di opporsi al ripetitivo scorrere degli eventi. Maria Grazia, Michele e Carla sono foglie al vento in balia dell’uomo forte, Leo, che regge le fila del destino economico della famiglia.

La prima intesse giorno dopo giorno la stessa favola, cieca più che mai alla sua finzione: perché mai aprire gli occhi da sogni tanto dolci quanto artificiali? Carla, nonostante affermi più volte di voler cambiare vita, altro non muterà se non la patina superficiale di una recita che nella sostanza rimane uguale a se stessa: non è capace di guardare al di sopra di ciò che vive per scoprirne la vacuità. Michele è l’unico in grado di chiamare il vuoto emotivo per nome: vede con chiarezza il senso e la direzione che gli mancano nel percorrere le vie della città e, di fronte ad un sentito abbraccio tra due passanti, afferma che «avrebbe voluto vivere in quell’età tragica e sincera, avrebbe voluto provare quei grandi odi travolgenti, innalzarsi a quei sentimenti illimitati, ma restava nel suo tempo e nella sua vita, per terra». A chi, come Michele, riesce ad emergere oltre la superficie dell’ipocrita messinscena, non resta che gravitare nella più sorda indifferenza, desiderando di soffrire sinceramente perché «a forza di sentimenti, di gesti, di parole, di pensieri falsi» la vita di chi non sa fingere «diventa tutta una commedia mancata».

La vorace fame di autenticità e senso chiama in causa l’umanità intera e rimane sempre argomento di straziante attualità: troppo spesso viene placata da emozioni spicce, che saziano al momento ma non nutrono un vuoto che, data la natura infinita di questo desiderio, difficilmente potrà essere soddisfatto dalla finitezza umana. Allora ci si trova a correre a perdifiato verso un obbiettivo che non è mai il traguardo, ma una semplice sosta che acquisisce senso solo nella misura in cui contribuisce alla ricerca del posto che si è chiamati ad occupare nel mondo.

Simile autenticità nell’aderenza al reale manca anche a Michele, nonostante egli riesca ad emergere dalla nebbia della disperata corsa a desideri vacui. Prima di tutto sarebbe stato necessario intraprendere l’imperversa strada che metteva in crisi quest’ipocrisia di cristallo, accorgersi de «il senso doloroso di una cecità e di un’oscurità nella quale essi tutti si trovavano avvolti senza speranza di liberazione». Moravia lascia quest’ultima speranza in sospeso, quasi sottintendendo la vanità della battaglia di chi cerca tale liberazione, e chiude il sipario sui personaggi ancora pedine della medesima trama di patinata illusione, che ancor oggi continua.

Alice Dusso

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