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«Il ritratto di uno sbandato cittadino»: Tirar mattina in una Milano periferica. Una strada, più generazioni.

Disegno di Giulia Pedone
Disegno di Giulia Pedone

«Per capire Milano bisogna tuffarvisi dentro. Tuffarvisi, non guardarla come un’opera d’arte». Sono parole di Guido Piovene, scrittore e giornalista italiano.

Milano è stata ed è tutt’ora la grande protagonista di opere letterarie di milanesi e non. Le sue strade, i suoi palazzi e le persone con le loro storie hanno da sempre affascinato scrittori che hanno deciso di raccontarla con i loro occhi: una città che accoglie, la Milan col coeur in man, ma anche una città che spesso respinge. Forse troppo fredda, difficile da capire: la Milano babelica raccontata da autori come Dino Buzzati, Giorgio Scerbanenco e Giovanni Testori.

C’è la Milano del centro, quella della borghesia descritta con amara ironia da Carlo Emilio Gadda e che ora è diventata il polo principale della moda, dell’aperitivo in terrazza e di vari eventi mondani che nascondono, in fondo, la stessa ipocrisia raccontata da Gadda; ma c’è anche la grande periferia, dove tra case popolari, palestre e bar, giovani e giovanissimi fanno di tutto per arrivare: dove, forse, non si sa. Ma l’importante è Tirar mattina. L’espressione non è un semplice ma efficace richiamo all’attività principale dei ragazzi di vita milanesi, bensì il titolo di un capolavoro di Umberto Simonetta del 1963.

E per perdersi tra le strade di una Milano periferica bella come non mai, questo è il libro adatto. Perché forse le persone conoscono Milano: ma la città di carta, quella letteraria, rimane spesso una passeggiata quasi sconosciuta ai più.

Tirar mattina è rimasto per anni fuori catalogo, poi ripubblicato da Baldini e Castoldi nel 2018. È il racconto di un viaggio notturno lungo le strade di una Milano grigia ma non priva di quella carica di disperata vitalità che caratterizza la periferia: oggi come ieri. Perché se l’immagine comune dell’hinterland porta con sé varie problematiche, disagi e difficoltà, nell’opera di Simonetta il ritratto che ci viene offerto è quello di una notte in cui i problemi vengono dimenticati: prevale il vagabondaggio spensierato, la voglia di divertimento, la vita da bohémien. Non c’è tempo per ritirarsi, «quando si è stanchi bisognerebbe trovare la forza di andare a dormire», ma questo è impossibile: la strada, pericolosa e misteriosa, ha il suo fascino conturbante.

Aldino, voce narrante e protagonista del romanzo, ha trentatré anni e il suo problema è l’«ora seria:quel tempo in cui è necessario crescere, lasciare perdere il vagabondaggio, la giovinezza e il divertimento. Occorre fare il proprio ingresso in un’età adulta: trovare, finalmente, un posto nel mondo, una dimensione.

Rimane ancora una notte ad Aldino, una notte in una città e in un’epoca precisa: la Milano del 1960.

È una notte frenetica quella dell’ormai non più ragazzo: fatta di luci, bar, curve e viali, di tiratardi da incontrare, sbarbati, prostitute con cui negoziare e di locali dover poter bere un grappino, così, semplicemente, disperatamente, per stirare il tempo dall’interno e dilatarlo e renderlo un presente che non si esaurisce mai.

L’indomani, sarebbe iniziato il lavoro, quello vero. E Aldino non apprezza questo momento: però deve. L’ha promesso alla sua fidanzata. Tuttavia quando vede che comincia a far chiaro è come se gli arrivassero delle gran sberle in faccia: «che malinconia schifosa che vomito le edicole che si spalancano, i bar che si aprono per i cappucci, la gente, quella gente che aspetta un tram alle cinque e mezza con un’espressione da Vado a fare il mio dovere».

L’anno in cui viene edito il romanzo di Umberto Simonetta, il ’63, è un anno importante per la letteraturaitaliana: vengono pubblicati Libera nos a Malo di Luigi Meneghello, Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino, La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda e altri romanzi che caratterizzano il periodo definito da Gian Carlo Ferretti “best-seller d’autore”. Forse è proprio per questo che il romanzo di Simonetta è stato considerato un’opera di autore minore: sicuramente il confronto con i grandi della letteratura l’ha danneggiato.

Fondamentale, in Tirar mattina, è Milano, e non solo nella sua affascinante e cruda descrizione, ma anche perché riesce a rappresentare, come una sorta di specchio, tutte le metamorfosi in atto nel Paese: se da un lato vi sono riferimenti al boom economico e a quelli che Giuseppe Lupo definisce “gli anni del nostro incanto”, dall’altro persistono le descrizioni di una periferia dove giovani e giovanissimi questo incanto lo osservano con invidia da dietro i finestroni di grandi case popolari denominate da Giovanni Testori fabbriconi.

Con occhi malinconici Aldino percorre con la sua Alfa l’ultima notte prima di diventare un uomo serio. Quegli stessi occhi, malinconici e un po’ preoccupati per l’avvenire, sono i nostri: il romanzo di Simonetta continua a riguardarci proprio per questo senso di dubbio che è il futuro. Oltre alla paura, al considerarsi alieno alla possibilità di sistemarsi davvero, Aldino è colui che sceglie di non servire a nulla, di vagare, di cercare e di cercarsi.

Non fa altro che tenere a bada quell’ora seria, la argina, la rinvia ancora e ancora e riesce persino a dimenticarsi che quell’ora esiste – e prima del suo arrivo, ignorandola, se ne va a dormire.

Aldino si trova a vivere un’epoca di passaggio, esattamente come di passaggio si sente lui che racconta, perennemente in bilico tra giovinezza ed età adulta, ultimo testimone consapevole e in forze di una Milano che fu e che inesorabilmente non tornerà, con l’imperialismo delle grandi aziende arrivato a snaturare un luogo fino a poco prima provinciale, con i suoi bar e i suoi anfratti, dove era possibile trovare un rifugio a tutte le ore del giorno e della notte, più viva della metropoli che è diventata oggi, nonostante le luci e i negozi di catena. E in tutto questo, a dispetto dei quasi cinquant’anni di distanza dalla società contemporanea, non possiamo fare altro che sentirlo uno di noi. Un romanzo che potrebbe essere paragonato ai capolavori della Beat Generation americana.

«A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione» scrive Kerouac nel suo libro che divenne il manifesto di una generazione.

Tirar mattina potrebbe essere considerato un romanzo generazionale, genere in cui l’intento è quello di fotografare un determinato periodo storico attraverso la storia di un personaggio alle soglie dell’età adulta, arricchita però da tutto il contesto sociale e linguistico di riferimento – dallo slang al vestire, alle bevande in voga, fino all’immancabile palcoscenico cittadino dove si muovono i personaggi. Aldino – come nei romanzi di formazione e generazionali – è un tipo solitario, che si sente straniero rispetto al consorzio sociale e che quindi, come tale, si districa a fatica nella società, compiendo scelte che vanno in senso contrario al sentire comune. Questo descrivere per contrasto è proprio il segno distintivo dei due generi: portare in primo piano l’individuo per fotografare una generazione intera. Le frustrazioni dei protagonisti di questi romanzi che possono sembrarci lontani nel tempo – Sulla strada di Jack Kerouac è del ’51 – sono in realtà molto attuali: paura del domani, inquietudine per il futuro e per un avvenire che spesso sembra troppo in bilico.

Alessandro Crea

1 commento su “«Il ritratto di uno sbandato cittadino»: Tirar mattina in una Milano periferica. Una strada, più generazioni.”

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