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I «danè fanno i danè» anche a Vigevano

Romanzo pubblicato nel 1962, Il calzolaio di Vigevano di Lucio Mastronardi ritrae il «mondo in piccolo» della bassa Lombardia tra voglia di lavorare e di arricchirsi sempre di più. Tanti soldi, poche librerie. 

Disegno di Giulia Pedone

Le pagine de Il calzolaio di Vigevano appaiono sul primo numero della neonata «il menabò» (1959), rivista letteraria diretta da Elio Vittorini e da Italo Calvino. È, di fatto, l’esordio di Lucio Mastronardi, autore, successivamente, de Il maestro di Vigevano (’62) e de Il meridionale di Vigevano (’64). Il cronotopo elettivo dell’autore è chiaramente la città di Vigevano, «luogo di frontiera tra la grassa Lomellina e il Milanese» [1].

Nonostante il primo romanzo sia stato pubblicato nel ’62, e quindi in pieno «boom economico», la vicenda è ambientata nel periodo fascista. Come sottolinea Gianni Turchetta, infatti, «sappiamo che gli eventi si collocano in buona parte nel periodo fascista: vediamo apparire qua e là rappresentanti del potere, sentiamo parlare del Duce, poi della guerra d’Africa e del fronte d’Albania. Poi veniamo a sapere anche del 25 luglio, dei partigiani, dello sbarco degli alleati e della fine della guerra» [2]. Se da un lato le vicende degli abitanti del «mondo in piccolo»[3] che è la città di Vigevano fanno chiaramente riferimento al primo dopoguerra e agli anni del fascismo, come fa notare giustamente ancora Turchetta, non è sbagliato leggere ne Il calzolaio tutti i vizi e le (poche) virtù che hanno caratterizzato il boom economico e il conseguente mutamento antropologico della società italiana nel secondo novecento. Spicca, fra tutti, il diktat del denaro e della volontà di arricchirsi. 

Il protagonista del romanzo è Mario Sala, detto Micca. Intraprendere il mestiere di calzolaio era scritto: «Fa Mario Sala di nome e viene dalla più antica famiglia di artigiani scarpari» [4].

Impara fin da subito il mestiere nella bottega del padre e successivamente lavora in fabbrica. Riconosce presto il suo talento e le sue doti non comuni e nella sua testa nasce quella consapevolezza mista a desiderio di mettersi in proprio e, ovviamente, di guadagnare moltissimo. 

Da bravo vigevanese onesto e operoso inizia a lavorare con ritmi molto accentuati, non conoscendo pause e festività: «Di giorno la fabbrica, la sera per suo conto a casa. Per mille e una notte non ebbe requie. E domeniche e Natali e Pasque e Ascensioni […], da mattina subito subito, fino a quasi mattina, a battere sul treppiede e tagliare pellame corame fodere, a cucire e stringare» [5].

Inutile sottolineare come al progetto si unisca anche la moglie Luisa. La donna viene scelta da Mario proprio perché laboriosa, solerte e produttiva. I sacrifici portano a dei risultati e Mario riesce a impiantare il suo calzaturificio, la sua fabbrichetta, in comune con Pelegatta. La nuova ditta, la Pelegatta Sala, riscuote molto successo e il piccolo calzolaio diventa ora un importante industriale di Vigevano. 

Come si è detto, nel romanzo entra anche la componente fascista, corollata dalle varie avventure belliche. D’accordo, «se ne percepisce solo un’eco lontana» [6], ma la guerra è comunque scoppiata: Mario è richiamato a combattere sul fronte albanese ed è costretto a lasciare la ditta al socio e a Luisa. Pelegatta decide bene di approfittarsene e decide di liquidare l’ingenua Luisa con una cifra miserevole. La moglie di Mario a questo punto è fragile, catapultata in un mondo di sopraffazione e di volontà di arricchirsi a tutti i costi, e Netto, un amico del Micca, se ne approfitta: inizialmente la convince a mettersi in società con lui per poi intraprendere una relazione sentimentale. Luisa, donna priva di carattere e candidamente sprovveduta, si trova bene con Netto. Mario diventa quasi un ricordo lontano, arrivando addirittura a sperare che sia morto.

Al di là della trama, che nonostante il romanzo sia abbastanza breve è ricca di avvenimenti e di (dis)avventure che capitano ai «personaggi-castoro» [7], è opportuno soffermarsi su qualche elemento. 

Il romanzo si chiude con Mario che va a vendere direttamente alla stazione le scarpe appena fabbricate: «[…] Si mette nel mercolo dell’uscita, guarda le facce dei viaggiatori, e domanda: – Scarpe buon patto? Corame, pellame, articoli per calzature? … Venite dietro me!» [8]. 
Da grande industriale di Vigevano Mario, dopo numerose peripezie e traversie, si trova a vendere le scarpe dietro ai binari della stazione. L’explicit del romanzo, di fatto un finale aperto, comunica così «un senso tanto angoscioso di chiusura senza scampo». [9]

Il romanzo è reiterato da episodi di arricchimento e di miserabile fallimento, un ciclo continuo di ricchezza e povertà che ben si confà alle dinamiche socioeconomiche di un paese, Vigevano, di dimensioni locali: però è proprio nella dimensione provinciale che può essere letto una sorta di «correlativo oggettivo di un’esistenza angusta e coatta» [10] più ampia, legata forse ad una condizione che accomuna l’intera nazione nel periodo del miracolo economico. 

Forse la componente più interessante del romanzo sta proprio nel duplice processo di lettura e d’interpretazione de Il calzolaio di vigevano, in cui locale e globale si uniscono in una dimensione spaziotemporale allo stesso tempo compressa ed esemplare. 
L’arricchimento, la fame di guadagno e di profitto spesso e volentieri è stata rappresentata come imperativo categorico delle grandi città, soprattutto a cavallo tra anni Cinquanta e, appunto, periodo del cosiddetto boom.

Mastronardi invece colloca l’ossessione del denaro, del lavorare e del produrre nella dimensione provinciale e non periferica, come fece ad esempio Giovanni Testori. In questo «mondo in piccolo», spesso insensato e claustrofobico, tutto si concentra sulla smania di denaro, dove il verbo produrre diventa assioma necessario e imprescindibile, in cui i sentimenti perdono quella naturalezza e quella verità a cui, in teoria, dovrebbero essere legati. L’unica realizzazione è quella resa possibile grazie al denaro: «Gira la manopola e la musica è sempre quella: danè fanno danè» [11]. Quella che prevale nel romanzo, come giustamente sottolinea Turchetta, è «la rappresentazione dell’irrazionalità del sistema capitalistico» [12]. 
Un processo generalizzato, tipico di un periodo storico ben preciso e, come si è detto, comune all’intero Paese, viene rifranto con la stessa forza all’interno di una realizzazione locale. È proprio il piccolo ambiente rappresentato che genera una eco forse ancora più squallida di questi processi di arricchimento. 

Mastronardi si concentra sulla piccola e piccolissima imprenditoria cogliendo però dinamiche generali dell’economia italiana. 
La forza del romanzo sta proprio nel fare riferimento ad una storia di provincia durante il fascismo ma, allo stesso tempo, nel poter leggere nelle pagine de Il calzolaio tutti i processi che proprio in quel periodo [13] erano ormai noti a tutti: fiumi di inchiostro vennero scritti sul rapporto tra letteratura e industria, «Letteratura industriale» [14], ritmi alienanti, denaro come unico desiderio di realizzazione, ecc., spesso anche con toni moralistici e giudicanti.

La diagnosi mastronardiana può essere accomunata, come d’altronde è stato già fatto più volte notare, ad un articolo di Giorgio Bocca che proprio in quel periodo, prendendo in esame la città di Vigevano, sottolineava sì la crescita economica, ma mostrando come essa sia stata «imperniata su una sorta di mono-cultura industriale, e ottenuta grazie alla cancellazione di qualsiasi altro valore che non fosse quello del denaro» [15].
L’incipit dell’articolo di Bocca è folgorante: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti cinquantesettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di libreria neanche una. […]» [16].
I danè sono l’unica cosa che conta. Tutto il resto viene gettato in un angolo da una mentalità figlia del miracolo economico che però si è rifranta anche nella contemporaneità.

Una cosa, però, va detta. Spesso, troppo spesso, si è demonizzato troppo il lavoro e il desiderio di benessere. Chi dice apertamente di voler stare bene economicamente, di voler porre il lavoro davanti a tutto e a tutti viene visto come un freddo calcolatore privo di sentimenti. Fatturare, produrre, guadagnare tutti verbi che spesso sono stati letti come attività negative, alienanti, spesso anche amorali. In alcuni ambienti umanisti e letterari da anni, forse secoli, permane una sorta di disapprovazione nei confronti di ciò che è il posto di lavoro, il mercato, considerato solo come mero servilismo nei confronti dei famosi dettami già citati. 

La volontà di guadagno, tanto criticata, è però, in fin dei conti, una necessità primaria, e quindi sarebbe finalmente arrivato il momento di smetterla di rimproverare chi decide di fare della carriera la propria primaria realizzazione.
Forse quel diktat da boom economico, quel fatturare e quel produrre tanto deprecato e visto con occhio giudicante – Trovati del tempo libero, pensa alla famiglia, pensi solo a lavorare, i soldi non sono tutto – ora, in un forte periodo di crisi economica in cui si è costretti a vivere, viene visto con occhio speranzosamente nostalgico. I danè non sono il male, e chi ha come desiderio la realizzazione tramite questi ultimi – rimanendo nel legale, ovviamente – non è un demone. E sì, spesso va anche in libreria. Ora ce ne sono molte, con buona pace di Bocca. 

Alessandro Crea


[1] G. Tesio, Introduzione a L. Mastronardi, Il calzolaio di Vigevano, Torino, Einaudi, in Id., Il maestro di Vigevano, ivi, pp. 207-339, p. VI 
[2] G. Turchetta, «Il calzolaio di Vigevano» di Lucio Mastronardi, in Letteratura italiana. Il secondo Novecento, Le opere 1938-1961, a cura di Alberto Asor Rosa, Einaudi / La Biblioteca di Repubblica – L’Espresso, 2007, pp. 609-638, p. 616
[3]  L’espressione è di Giancarlo Ferretti, Il mondo in piccolo. Ritratto di Lucio Mastronardi, in Per Mastronardi. Atti del Convegno di studi su Lucio Mastronardi (Vigevano, 6-7 giugno 1981, di M. A. Grignani (a cura di), Pavia, La Nuova Italia. 
[4] L. Mastronardi, Il calzolaio di Vigevano, Torino, Einaudi, p. 209
[5] L. Mastronardi, op. cit., p. 212
[6] G. Turchetta, Ivi, p. 618
[7] È un’espressione di Eugenio Montale. Si veda E. Montale, Letture, Il calzolaio di Vigevano, in «Corriere della Sera», 31 luglio 1959
[8] L. Mastronardi, op. cit., p. 339
[9] G. Turchetta, Ivi, p. 620
[10] G. Turchetta, Ivi, p. 623
[11] L. Mastronardi, op. cit., p. 212
[12] G. Turchetta, Ivi, p. 625
[13] Il romanzo venne pubblicato nel 1962. Oltre ad essere in pieno boom economico, sono anni nei quali il rapporto tra letteratura e industria, e le conseguenze del boom anche in letteratura, vengono indagate con grande interesse non solo da scrittori ma anche da sociologi, giornalisti e intellettuali.
[14] Al rapporto tra Letteratura e industria viene dedicato il quarto numero de «il menabò».
[15] G. Turchetta, Ivi, p. 628
[16] G. Bocca, Mille fabbriche nessuna libreria, in «Il Giorno», 14 gennaio 1962; la citazione è tratta da G. Bocca, Miracolo all’italiana, Prefazione di G. Crainz, Milano, Feltrinelli, 2018, p. 31

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