Vai al contenuto

Analisi della figura femminile nel noir “The Lady from Shanghai”

Fotografia di Filippo Ilderico

Il noir, ed in particolare la pellicola di Orson Welles, attraverso la figura della femme fatale ha svolto un fondamentale ruolo nello sviluppo della donna nella storia del cinema a stelle e strisce.

The Lady from Shanghai è un film noir del 1947 diretto ed interpretato da Orson Welles con Rita Hayworth nei panni della femme fatale. Tratto tipico del genere, questo ruolo rappresenta una donna misteriosa, ingannevole, con un passato difficilmente codificabile, a cui ruota attorno l’intera vicenda nella quale ella è spesso carnefice e quasi sempre vittima.

La parte della Hayworth risulta di particolare importanza se la si guarda filtrandola con quanto sostenuto da Laura Mulvey nel suo celebre Visual Pleasure and Narrative Cinema. Secondo la critica cinematografica britannica infatti l’inconscio maschile dello spettatore-regista ha due possibili strade per sfuggire ad una castration anxiety preoccupation simboleggiata dalla donna.

La prima consiste nel demistificare la mancanza che essa simboleggia attraverso una continua ricerca ed investigazione nei suoi riguardi, provando a districarne il mistero per poi poter arrivare a salvare, redimere ed infine svalutare quello che la Mulvey chiama «guilty object»: la comprensione del recondito per ottenere la possibilità di redimerlo. La seconda opzione, invece, riguarda più semplicemente il rinnegare completamente la castrazione tramite la sostituzione con un oggetto feticistico, in altri termini la supervalutazione del culto delle star.

La prima di queste due ipotesi combacia perfettamente con il capolavoro di Orson Welles. Nel corso della storia infatti non vi è un vera e propria investigazione poliziesca, ma l’intera vicenda si basa piuttosto sul flusso di coscienza in voice-over del protagonista Michael O’Hara, interpretato dallo stesso regista, che cerca, con il passare del film, di comprendere le vere intenzioni della donna che gli sta accanto, Elsa Bannister, ovvero Rita Hayworth, che intrappolerà Michael in una serie di vicende (la sua relazione forzata con il marito, un tentativo di frode di un’assicurazione per la vita) da lei stessa tramate.

La maggior parte delle pellicole noir inizia canonicamente con un omicidio o un furto di denaro che risulta poi essere la ragione apparente per la seguente struttura investigativa, in questo caso però l’elemento scatenante per il susseguirsi del racconto è rappresentato proprio dalla scena del primo incontro nel parco dei due protagonisti: da quel momento in avanti non si farà che sottolineare l’indecifrabilità di Elsa e, allo stesso tempo, la sua autorità sulle due principali figure maschili all’interno della sceneggiatura. La Hayworth infatti sfrutta il marito avvocato da cui vuole divorziare per poter salvare l’amante O’Hara che ha invece precedentemente usato per liberarsi del marito. 

 Quest’autorità però, nonostante costituisca una forte innovazione nella cinematografia statunitense, è limitata poiché (seguendo il copione teorizzato da Laura Mulvey) nella celebre e onirica sequenza finale in una sala degli specchi di un circo abbandonato Elsa dovrà fare i conti con le sue azioni ed il suo passato, sarà obbligata a chiedere aiuto all’uomo che aveva più volte ingannato, senza, per’altro, trovare nessuna risposta.

Edoardo Rugo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.