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Rappresentazioni di verosimili sogni

Fotografia di Filippo Ilderico

Let me Dream Again di George Albert Smith e le fotografie di Sandy Skoglund offrono, in un circolo vizioso tra sogno e realtà, “cinema” e fotografia, un affresco della società del loro tempo, in particolare della società americana di cui essi fanno parte.

È il 1900 quando George Albert Smith proietta Let me Dream Again, breve pellicola in cui ciò che le convenzioni borghesi d’inizio secolo avevano rimosso viene presentato sulla scena come un’attrazione: il non convenzionalmente accettato diviene sogno. Il film, composto da due scene, mostra un uomo e una donna che festeggiano bevendo e fumando. La scena si rivela però poi soltanto un sogno e l’uomo si trova a letto con la moglie con cui viene mostrato, attraverso movenze comiche, un rapporto tutt’altro che idilliaco.

Il ribaltamento della situazione evidenzia il contrasto tra sogno e realtà. Infatti, grazie al medium cinematografico, lo spettatore del cinema delle origini – fondato sull’attrazione suscitata dal poter vedere immagini in movimento della vita reale riprodotte su uno “schermo” – è portato inizialmente a ritenere la scena di apertura come reale. Questa verosimiglianza, come anche quella della fotografia, da cui il cinema inizialmente deriva, porta i fruitori a considerare vere le immagini presentate.

È proprio questo carattere plausibile, stavolta del medium fotografico, che Sandy Skoglund, fotografa americana contemporanea, utilizza per rendere accettabili le sue fotografie. Il suo lavoro, spesso definito surrealista, non ha niente a che vedere con il sogno, anzi le sue opere riguardano «il contrasto e la complessità che oggi caratterizza gli Stati Uniti» [1]. Però un elemento del sogno c’è e l’artista lo ammette: l’invadenza [2]. Ogni fotografia infatti rappresenta una scena usuale e quotidiana della vita contemporanea, ma con la costante comparsa di un elemento straniante: possiamo ad esempio vederlo in Picnic on Wine, in cui figure umane e altre, antropomorfe ma vegetali, siedono su un prato di bicchieri di vino rosso. Nonostante l’intrusione l’immagine resta però plausibile proprio grazie al medium fotografico poiché la fotografia mostra qualcosa che è esistito veramente.

Per lo stesso motivo la fotografa non crea le sue immagini a computer, ma costruisce delle vere e proprie scene, con attori e sculture che infine fotografa. Anche la presenza, in pressoché ogni foto, di figure umane, ha la stessa funzione di non far apparire l’immagine troppo aliena. E d’altra parte l’artista riesce a far sì che proprio le persone nella foto di Picnic on Wine sembrino la parte più astratta e meno plausibile della foto.

Ma qual è l’origine di questo mixing di “naturale” e “artificiale”? L’artista la indica nella propria stessa esperienza: immaginare un mondo in cui non ci siano quegli oggetti artificiali di cui si potrebbe fare a meno, ma che diventano spesso pressoché indispensabili, è per lei impensabile. Crea quindi, con l’effetto generato dall’intrusione, una sorta di puzzle dalle molteplici interpretazioni, al quale ogni spettatore, anche il più popolare, possa sentirsi vicino: questo avvicinamento è offerto dall’utilizzo di forme pubblicitarie, pur senza pubblicizzare niente. Negli anni ’80 infatti Skoglund comincia a sentire la pubblicità come il possibile mezzo di comunicazione tra spettatore e produttore di immagini, sentito come necessario dopo la chiusura elitarista del Modernismo.

In questo contesto nutre le sue immagini con una forte esagerazione e saturazione dei colori – ben visibile nel contrasto di rosso, verde e blu in Picnic on Wine – atte a rappresentare «l’energia, l’entusiasmo e l’eccesso della cultura americana contemporanea» [3]. Un’altra opera che ben rappresenta tale energia è Shimmering madness: una serie di figure danzanti, in parte umane e in parte fatte di caramelle, sono proiettate in un’ambiente surreale con il pavimento anch’esso di caramelle e i muri costellati di farfalle. In questa atmosfera dai colori sgargianti, tecnicamente ebbra ed entusiastica, le figure, umane o antropomorfe, sono però spogliate della sostanzialità della vita e di fluidità lasciando spazio a «una cristallizzazione degli esseri danzanti ma immobili come blocchi di pietra» [4].

Mentre George Albert Smith portava il pubblico, per un minuto o poco più, a una felice evasione dalla realtà contemporanea, nelle opere di Sandy Skoglund il reale affiora con maggiore energia proprio grazie all’inserimento di elementi di invadenza che proiettano l’insieme in una dimensione insolita: quelle stesse immagini che di per sé non avrebbero nulla di straordinario diventano uno strumento di riflessione.

Elena Sofia Ricci


[1] Sandy Skoglund, conversazione con Demetrio Paparoni, Tema Celeste Magazine, 1998
[2] Ibidem
[3] Ibidem
[4] Mostra “Sandy Skoglund. Visioni ibride”, spazio CAMERA, Torino, 24 gennaio 2019 – 31 marzo 2019

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